Da “dica trentatre” alla calcolatrice ovvero la brutta fine di Ippocrate

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Da “dica trentatre” alla calcolatrice ovvero la brutta fine di Ippocrate

18 Aprile 2010

Andate a dire a un medico che è un “artista”, e probabilmente lo vedrete arrabbiarsi molto. “Scienziato”, piuttosto, giacché mai vorrebbe paragonare il suo lavoro a quello di un pittore, mentre l’associazione con un fisico quantistico appare molto più gratificante. E qui, fondamentalmente, sta l’errore pressoché universalmente condiviso: considerare la medicina come una scienza esatta, basata unicamente su calcoli e parametri, tralasciando tutto quanto non è numericamente quantificabile una sensazione, un ricordo, il dolore. E non importa se il corpo non è esattamente uguale a una macchina da riparare – con pezzi di ricambio e circuiti autoregolantisi, con tanto di codici procedurali a innesco automatico -, come tale deve essere trattato per elevare la professione medica all’altare sacro delle scienze oggettive.

Nel suo ultimo libro, Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che cura i malati come persone, Giorgio Israel racconta passaggio per passaggio come la medicina abbia mutato il suo approccio da qualitativo a quantitativo. Ovvero, come siamo arrivati a considerare asetticamente la malattia non più una rottura dell’armonia, una lotta tra le forze interne a un corpo, ma una variazione, in bene o in male, dei parametri che abbiamo fissato nel definire la salute, dell’equilibrio quantificato come tale. Con un profluvio di prefissi “ipo-” e “iper-” appiccicati al posto dei vecchi “a-” e “dis-”: alla fine siamo molto o poco di qualcosa, è tutta una questione di numeri. Quanto sei sano? Quanto sei cosciente? Così, per arrivare al sodo, una vita può essere numericamente valutata come degna di essere vissuta,oppure no.

In principio fu Galileo Galilei, con il suo mondo strutturato in forma matematica, poi la svolta definitiva di Claude Bernard, fondatore della medicina scientifica moderna. In mezzo la progressiva riduzione di tutta la questione al modello della scienza del moto, la meccanica. Israel, prima che essere l’acerrimo nemico dei relativisti e degli scientisti assoluti, è un matematico. E nello snocciolare i limiti di un approccio oggettivista alla medicina non dimentica certo i progressi raggiunti, ma riconosce che se volessimo compilare tabelle che definiscano i parametri per valutare “la normalità”, l’equilibrio, la salute degli esseri umani di tutto il mondo, cadremmo vittime dell’approssimazione a causa delle troppe variabili da considerare. L’unica via d’uscita? Una “cartografia 1:1”, la rappresentazione di ogni singola persona. Ovvero una gigantesca e complicatissima perdita di tempo.

Ma l’approccio meccanicistico non ci ha semplicemente ridotti a marchingegni riparabili da remoto e valutabili in video-conferenza. La medicina, ci ricorda Israel, ha scordato completamente quello di cui, ad oggi, resta traccia soltanto nella lingua inglese, e cioè che esiste una differenza fra “illness” e “disease”, fra “la malattia del malato” e “la malattia del medico”. Ci si “sente” malati, al di là dell’essere riconosciuti tali da un protocollo. Nell’uomo parla l’esperienza, la soggettività, spazzata via in gran parte dalla diagnostica moderna. Che pure è preziosa, ma che non può sostituirsi alla relazione fra medico e paziente, quella in cui l’uomo che “si sente” malato, appunto, descrive la sua sofferenza. E’ questa l’umanizzazione che Israel auspica, questa l’arte che il medico deve praticare attraverso le sue conoscenze scientifiche. Oppure il rischio, con la medicina diventata ormai molecolare e concentrata sull’analisi delle singole componenti delle singole cellule, è il mondo dei tecno-orrori di Aldous Huxley, dove la scienza si trasforma in eugenetica basata sulla valutazione del rischio (infondata perché assolutamente imprecisa), spacciata per scientifica. Il rischio che un embrione sviluppi una patologia perché un particolare gene potrebbe mutare o malfunzionare (e allora meglio abortirlo), il rischio che una donna partorisca bambini destinati a non essere sani (e allora meglio sterilizzarla). Un orizzonte futuro terrificante che germina sul paradigma errato che tutto sia genetico e prevalica l’umano a favore della medicalizzazione (da incubo) dell’esistenza.

“Per una medicina umanistica – apologia di una medicina che cura i malati come persone”, Giorgio Israel, Lindau, 2010, 104 pp, 12 euro