Da Gibrara a Londra: la vita esule dello scrittore Cabrera Infante
25 Febbraio 2012
Guillermo Cabrera Infante nasce a Gibara il 22 aprile del 1929, povera cittadina della provincia di Oriente che ancora non ha scoperto il fascino del cinema povero di Humberto Solás. Negli anni Trenta a Gibara tutto è povero, non serve un festival cinematografico, si respira miseria frammista al profumo di salmastro che proviene dal lungomare. Oceano Atlantico, testa del Caimano che spinge le fauci in un caldo mare tropicale, diventerà provincia di Holguín, ma adesso territorio di confine, sperduto paese lambito da venti orientali e da inclementi tempeste di pioggia. Guillermo Cabrera fa il giornalista e trasmette al figlio insieme al nome di battesimo anche la passione per la scrittura.
Zoila Infante è la sua compagna di vita e di lotta politica, ché nella piccola cittadina di Gibara sono proprio loro i coraggiosi ad aprire una sezione del Partito Comunista, fondato all’Avana nel 1925 da un romantico personaggio come Julio Antonio Mella. Non è la stagione ideale per essere comunisti, sono gli anni di Machado, il dittatore più terribile della storia di Cuba. I coniugi Cabrera Infante vengono arrestati nel 1936, imputati di attività sovversive, insieme al figlioletto che ha soltanto sette anni e deve conoscere per qualche giorno i rigori d’una prigione. La polizia provinciale della dittatura machadista sono le temute Guardie Rurali, che entrano in casa Infante e fanno man bassa, armi alla mano, catturano la madre e il fratello, distruggono mobili e suppellettili, bruciano libri e incartamenti di partito. Il padre non è in casa, ma si consegnerà alla polizia di Santiago – cinquecento chilometri a sud-ovest di Gibara – appena saprà dell’arresto della moglie, mentre il bambino verrà affidato ai nonni fino al giorno della liberazione.
Gibara comincia a stare stretta alla famiglia di Guillermo, la provincia non è il posto ideale per portare avanti la lotta politica, ma soprattutto non va bene per l’educazione culturale d’un figlio così promettente. L’Avana sembra la scelta giusta, vissuta come un sogno lontano, grande città affacciata sull’Oceano Atlantico, delimitata da un muro in granito, tra il mare e i sogni lontani.
Siamo nel 1941, Guillermo ha soltanto dodici anni quando vede per la prima volta L’Avana, città della sua formazione culturale e umana con la quale sarà sempre legato da un rapporto indissolubile. Frequenta la scuola secondaria quando un professore gli parla per la prima volta dell’Odissea, racconta il ritorno di Ulisse a Itaca e cita l’episodio del cane Argo che nel rivederlo muore per la felicità. Guillermo si emoziona moltissimo, non ha mai sentito una storia così bella, è la spinta decisiva per farlo cominciare a interessare di letteratura. Al liceo il giovane Cabrera Infante è un valente studente di storia della letteratura, non soltanto spagnola e cubana, ma di ogni tempo e latitudine. Nel 1947 s’imbatte ne El Señor Presidente, grande romanzo di Miguel Ángel Asturias, e decide di fare una sorta di parodia del capolavoro scrivendo un racconto con lo stesso titolo. Ha soltanto diciotto anni, ma riesce a usare gli stessi elementi letterari che Asturias inserisce nel testo, soprattutto ripetizioni, suoni, sillabe, assonanze, imitando lo stile. Guillermo lo spedisce a Bohemia, la rivista più popolare di Cuba, quasi come un gioco e con grande sorpresa vede pubblicare quello che lui stesso definisce uno scherzo letterario. Comincia la sua avventura tra le parole, che con il tempo si trasformerà in una professione, ma forse è meglio dire un’ossessione. Sì, perché la croce di uno scrittore è proprio quella di non poter passare una sola giornata senza aver scritto qualcosa, che sia un articolo, un pensiero, una riflessione, una pagina di romanzo, un racconto. Non ha importanza cosa, ma l’importante è scrivere.
Nel 1947 Guillermo ha soltanto diciotto anni, vive le strade d’una capitale sconosciuta e famelica che così bene descriverà nelle pagine de L’Avana per un infante defunto, ama scrivere racconti e come tutti i ragazzi non sa cosa farà della sua vita. La sua prima scelta universitaria si dirige verso la facoltà di medicina, ma la corregge presto perché la materia non fa per lui, così portato al ragionamento letterario, alla giocosa intuizione della parola. Nel 1950 si iscrive alla facoltà di giornalismo – a Cuba esisteva ed esiste ancora oggi pure se a un italiano può sembrare impossibile – seguendo le orme del padre. Comprende che il suo mondo sono il cinema e la letteratura, due amori che lo accompagneranno per tutta la vita, forse i soli amori che non tradirà mai perché con le donne non sarà altrettanto fedele.
A Cuba cade Machado e prende il potere Fulgencio Batista – un sergente mulatto che si autonominerà generale – in un primo tempo grazie a libere elezioni e sostenuto dal Partito Comunista, poi grazie al golpe più rapido della storia di Cuba, portato a termine a bordo di quattro auto con l’aiuto di diciassette ufficiali. Il Partito dell’Azione Unificatrice (PAU) che fa capo a Batista auspica da tempo l’imposizione di una dittatura per riportare ordine nel paese. Batista prende il potere senza spari e senza ostilità, si proclama capo di Stato senza spargere una goccia di sangue, al termine di quello che i cubani chiamano ironicamente come “il golpe del sun-sun”, alludendo a una canzone che parla del sun-sun, un discreto uccellino mattiniero. Gli scrittori non sono mai simpatici ai dittatori, rappresentano dolorose spine nel fianco, perché il potere è come una droga e ubriacarsi di storia può essere il suo effetto peggiore. Sono parole del grande poeta cubano José Maria Heredia, morto in esilio dopo aver lottato per una Cuba libera, ma vanno bene per ogni tempo. “Nessuna poesia rovescerà mai un tiranno. Ma gli lascia un segno, a volte indelebile”, aggiunge.
Guillermo Cabrera Infante scrive e lascia segni indelebili sulla pelle del tiranno, è il suo compito, la sola cosa che sa fare. Nel 1952 scrive un racconto che non piace ai censori del regime, lo considerano osceno e lo sequestrano su tutto il territorio nazionale. Guillermo come pena accessoria si vede proibire la possibilità di firmare opere di narrativa, articoli e saggi, divieto che aggira ricorrendo allo pseudonimo di G. Caín, desunto per contrazione dal suo vero nome. Il cinema diventa il suo amore più grande, forse affascina lo scrittore più della stessa letteratura, perché le immagini esprimono con immediatezza le sensazioni. Nel 1954, Guillermo diventa il giovane critico cinematografico della rivista Carteles, come racconta nel romanzo autobiografico Cuerpos divinos, uscito postumo per merito di Miriam Gómez, la seconda moglie. Firma i pezzi con lo pseudonimo che ormai lo caratterizza e che non abbandonerà mai, perché in futuro scriverà sceneggiature cinematografiche come G. Caín. Carteles sarà parte integrate della sua giovinezza, la redazione della rivista lo accoglierà fino al 1960 e sarà proprio da lì che porterà avanti amicizie e incontri sentimentali, unendo lavoro e passioni come leitmotiv della sua vita.
Marta Calvo è la prima moglie che sposa nel 1953 e dal matrimonio nascono le due figlie Ana e Carola, ma nel 1958 conosce l’amore della sua vita, l’attrice cubana Miriam Gómez, che sposa nel 1961, dopo aver divorziato dalla prima moglie. Non è un esempio di fedeltà Guillermo, prerogativa di molti cubani, ma Miriam Gómez sarà la sua compagna per tutta la vita, dobbiamo alla sua lungimiranza se possiamo leggere Cuerpos divinos, nonostante il romanzo racconti storie di tradimenti e di rapidi amori vissuti dallo scrittore con affascinanti ragazze avanere.
Guillermo Cabrera Infante è figlio di comunisti, odia Batista con tutto il cuore, lo considera un dittatore incolto e arrogante, appoggia la Rivoluzione e pensa che i barbudos di Fidel Castro porteranno una ventata d’aria nuova in una realtà asfittica. Per alcuni anni le cose vanno bene, viene nominato direttore del Consiglio Nazionale della Cultura, dirigente dell’Istituto del Cinema e vice direttore della rivista Revolución, diretta da Carlos Franqui. Cabrera Infante dirige il supplemento letterario, il mitico Lunes de Revolución che ancora oggi è ben impresso nell’immaginario collettivo se si pensa che un giovane cubano come Orlando Pardo Lazo intitola il suo irriverente blog Lunes de Post Revolución.
La rivista e il suo supplemento sono destinate alla chiusura. Troppo indipendenti e idealiste, lontane anni luce dalle idee di Fidel Castro che non tiene in nessun conto le istanze di libertà e di sviluppo culturale. L’intellettuale deve restare nel solco tracciato dalla Rivoluzione, come avrebbe capito alcuni anni dopo anche Heberto Padilla, condannato e isolato per il coraggioso Fuera del juego. Tra Guillermo Cabrera Infante e il regime instaurato da Fidel Castro non può che esserci una breve luna di miele, al termine della quale i sogni si trasformeranno in realtà e ognuno prenderà la sua strada. Un cortometraggio del 1960 che descrive il modo di divertirsi di un gruppo di avaneri è la pietra dello scandalo, perché è girato da Orlando Jiménez Leal e da Sabá Cabrera, fratello dello scrittore.
Fidel Castro non lo apprezza, non ha scopi didattici, non serve a educare alla rigida morale comunista, anzi, mostra al pubblico comportamenti riprovevoli. Nel 1961 il cortometraggio viene sequestrato e proibito, così Guillermo vive nei panni del fratello una situazione negativa già provata sulla sua pelle ai tempi di Batista. Si rende conto che la censura esiste ancora, purtroppo, forse più forte di prima, la sola differenza è che altri detengono il potere, ma gli intellettuali danno sempre fastidio. Guillermo polemizza con la decisione sulle pagine di Lunes de Revolución, ma ottiene l’effetto che la rivista viene fatta chiudere al più presto. Fidel ha già pronto il quotidiano del partito unico che si chiamerà Granma e il supplemento settimanale Juventud Rebelde, anima dei giovani comunisti. Sarà questa la nuova stampa cubana, insieme a Trabajadores, rivista del sindacato unico, chiusa a ogni libera espressione del pensiero e orientata da direttive governative.
Gli intellettuali non godono di nessuna libertà con la Rivoluzione. Fidel Castro lo dice con chiarezza in una frase del famoso discorso Parole agli intellettuali, pronunciato il 30 giugno 1961: “All’interno della Rivoluzione è consentito tutto. Fuori della Rivoluzione, niente!”. Di fatto questa frase sancisce l’esilio di Guillermo Cabrera Infante, inviato a Bruxelles come addetto culturale dell’ambasciata cubana perché scomodo in patria. In Belgio scrive Un oficio del siglo XX (1963), vive per tre anni nella capitale insieme alle due figlie e alla seconda moglie Miriam Gómez. Certo, il Belgio per un cubano sembra proprio l’altra faccia della Luna, ma lui accetta la nuova destinazione di buon grado. Torna a Cuba nel 1965, in seguito alla morte improvvisa della madre, ma viene arrestato dal controspionaggio e trattenuto a Cuba per quattro mesi. Guillermo si rende conto di quanto sia cambiata L’Avana, trasformata dalla dittatura in una città triste, percorsa da uomini e donne che vagano senza meta come zombi.
Non riconosce più quella città piena di luci e di vita che aveva lasciato per trasferirsi a Bruxelles. Comprende che non potrà più vivere a Cuba e gli resta come unica scelta un esilio definitivo. Vive a Madrid e a Barcellona, ma la Spagna non è il luogo ideale, perché governa un dittatore come Franco, che non lo vede di buon occhio. La scelta definitiva è Londra, così diversa dalla sua Avana, ma almeno è una terra libera, dove si parla una lingua sconosciuta che imparerà così bene da poter scrivere romanzi e articoli in inglese. Cabrera Infante si sente solo senza la sua gente, perché ama il popolo cubano come fa capire in Tre tristi tigri, un romanzo di complessa lettura, scritto nei diversi dialetti che si parlano a Cuba, facendo ricorso a una serie di giochi di parole e di significati che si rincorrono tra loro. L’autore ama questo modo di scrivere e lo utilizza per far capire il profondo legame con la terra che l’ha generato, un’isola che fa del caos il suo stile di vita, abitata da persone che affrontano l’esistenza con disinvoltura, senza programmi, burlandosi della realtà, invece di accettarla drammaticamente, trasformandola in un’occasione per sorridere.
Nel 1968 la rivista Primera Plana realizza una serie di interviste a scrittori latinoamericani che vivono in Europa ed è in quella occasione che Cabrera Infante esprime pubblicamente le sue perplessità sulle contraddizioni di Cuba e del castrismo. È la prima volta che racconta il suo nuovo incontro con un’Avana triste e sgradevole, ma lo fa con la stampa internazionale e la cosa non passa sotto silenzio in patria. Cabrera Infante è espulso dall’Unione degli Scrittori e degli Artisti di Cuba (UNEAC) e dichiarato traditore della patria. Lo scrittore ha deciso che il suo futuro dovrà essere libero da vincoli e da regimi assoluti, la sola cosa che gli interessa è potersi esprimere senza remore di sorta. L’ostracismo di Fidel Castro serve soltanto a rendere amaro il suo soggiorno distante che si protrarrà fino alla morte.
Nel 1968 pubblica a Londra Tres tristes tigres (Tre tristi tigri), primo romanzo di successo, da lui definito scherzosamente TTT e in origine intitolato Ella cantaba boleros (Lei cantava boleri). Il romanzo è una nuova versione leggermente modificata del vecchio lavoro Vista del amanecer en el trópico (Visione di un’alba tropicale) e si caratterizza per l’uso ingegnoso del linguaggio che introduce molti cubanismi presi dal parlato, oltre a basarsi su continui riferimenti e citazioni di altre opere letterarie. Tre tristi tigri racconta la vita notturna di tre giovani nell’Avana del 1958, ma nonostante tutto l’opera viene qualificata dal governo cubano come controrivoluzionaria e vietata su tutto il territorio nazionale. Il destino di un vero scrittore è quello di essere inviso al potere, Cabrera Infante non fa eccezione alla regola e come novello Heredia lascia un segno indelebile sul volto del tiranno.
La vita di Cabrera Infante scorre nella grigia Londra tra le passioni di sempre, scrittura e cinema, abbozza sceneggiature, scrive The Lost City, il film della sua vita realizzato da Andy Garcia che non farà in tempo a vedere. Non tornerà mai più a Cuba, fedele come pochi alle sue idee e a una rigida dirittura morale. Vive per le sue opere e per il cinema, polemista eccellente, ironico manipolatore del linguaggio, lavoratore infaticabile della parola.
Nel 1970 l’amore tra Guillermo Cabrera Infante e il cinema diventa realtà consolidata perché lo scrittore si trasferisce a Hollywood dove si dedica a sceneggiature interessanti come quella del film tratto da Sotto il vulcano di Malcom Lowry, ma la sceneggiatura della sua vita è dedicata a un’isola che non rivedrà. Nel 1972, Tre tristi tigri viene tradotto in inglese ed è pubblicato a Londra con il titolo Three trapped tigers. Forse il riconoscimento letterario è un’anticipazione della cittadinanza britannica che ottiene nel 1979, anche se la sua opera fondamentale si apprezza a fondo soltanto in spagnolo.
Il Premio Cervantes che gli viene assegnato nel 1997 riconosce la sua grandezza nell’ambito della letteratura ispanica e non ci sono dittatori né ostracismi che tengano. Cabrera Infante è uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi che si sono espressi in lingua spagnola. Nel 2003 fa in tempo a ottenere il Premio Internazionale della Fondazione Cristóbal Gabarrón per la letteratura. Poi la salute non lo assiste, viene ricoverato più volte al Chelsea and Westminster Hospital di Londra in seguito alla frattura di un’anca. In ospedale contrae una setticemia e muore proprio di quella malattia, il 21 febbraio del 2005, all’età di 75 anni. A Cuba non viene neppure data la notizia della sua morte, ma verrà il giorno in cui qualcuno dovrà fare i conti con la storia e riparare a troppi torti.
“Mi spinsero alla fuga la svolta totalitaria, la censura, i processi e le condanne contro gli oppositori politici che avevano partecipato alla guerriglia. Come molti cubani credetti nelle buone intenzioni di Castro fino a quando, dopo averle promesse per aprirsi la strada verso il potere, disse che le elezioni democratiche erano superflue. Tardai qualche anno nel disfarmi dei legami perché è molto più difficile abbandonare il proprio paese che rinunciare all’appartenenza a un partito. E, per me, a quell’epoca, uscire dal partito poteva significare solo l’esilio, un lunghissimo esilio”.
* Gordiano Lupi è giornalista per La Stampa di Torino e autore di saggi e articoli sulla cultura e la politica cubana. Ha tradotto dallo spagnolo le opere di scrittori cubani come Alejandro Torreguitart Ruiz, Yoani Sánchez, William Navarrete, Felix Luis Viera, Heberto Padilla, Rafael Bordao
Tratto da Voces de Cuba, una rivista cubana