Da Hamas al Pd, un’Unione tattica senza strategia
14 Agosto 2007
Chissà se ha ragione Piero Ostellino quando sostiene che l’ennesima improvvida sortita di Romano Prodi, che gli è valsa l’aperto plauso di Hamas, è stata “un brutto esempio di opportunismo”, per cercare pace a Palazzo Chigi molto più che in Medio Oriente. Chissà invece se coglie nel segno chi intravede dietro i sussurri e i sorrisi del primo ministro italiano i residui duri a morire di una ideologia che nell’antiamericanismo trova oggi la sua espressione più attuale. Oppure chi – non meno tragicamente – nella condotta del Professore e della sua maggioranza di governo ha creduto di scorgere la prova di una preoccupante leggerezza, di un pressappochismo e di un’improvvisazione che stanno trascinando il nostro Paese ai margini della comunità internazionale, tra la diffidenza degli alleati e gli interessati ammiccamenti di chi – come gli estremisti di Hamas – prima dell’avvento di Prodi si trovavano, rispetto all’Italia, dall’altra parte della barricata.
A ben guardare, la vertenza aperta nell’Unione sul “caso Hamas” somiglia sempre di più al dibattito sulla costruzione del Partito democratico. Dietro le dichiarazioni a dir poco contraddittorie offerte alla stampa da esponenti di governo e leader di partito (dello stesso partito, si badi bene) è evidente che non vi è più soltanto una divergenza di vedute da nascondere per quel che si può dietro artifizi retorici facilmente smascherabili. Se un giorno il ministro degli Esteri definisce Hamas “una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese”, il giorno appresso il suo segretario (che voleva parlare di pace in Afghanistan con i talebani) chiude la porta alla formazione terroristica e invoca il rafforzamento di Abu Mazen, e quello dopo ancora il capo dell’esecutivo, dopo aver smentito il suo ministro nel corso di una visita di Israele, individua nell’evoluzione di Hamas uno degli obiettivi della politica estera italiana in Medio Oriente, risalire la china della credibilità diventa una missione impossibile.
Non tanto, e non solo, per il pauroso percorso di avvicinamento che a giorni alterni i nostri governanti mostrano di voler intraprendere nei confronti delle formazioni estremiste presenti ovunque attorno ad Israele covi un focolaio di ostilità. Quanto piuttosto per la preoccupante mancanza di un disegno organico che dietro questo indecoroso spettacolo si cela. Le prese di posizione degli ultimi mesi, che tanto preoccupano i nostri partner stranieri e irritano gli alleati storici dell’Italia, dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio che il governo Prodi, afflitto da tendenza all’autocombustione cronica, nella partita a scacchi che ha in palio la conservazione del potere vive di pura tattica, senza alcuna strategia. Così è nella costruzione del Partito democratico e nella determinazione della sua leadership; così è a maggior ragione in politica estera, terreno di perenne scontro fra le diverse anime della maggioranza, e troppo spesso merce di scambio per esigenze di mediazione interna.
E’ così che alla diplomazia ufficiale, cui ogni democrazia matura affida la determinazione della propria posizione nel mondo, si va sostituendo una sorta di “diplomazia parallela”, la quale fuori dai nostri confini agisce come un elefante scardinando alleanze consolidate e giungendo ad accreditare formazioni para-terroristiche, ma all’interno dei palazzi del potere si è rivelata fino ad oggi in grado di garantire agli inquilini il mantenimento del potere. A costo di svendere la condotta dell’Italia in campo internazionale, piegata di volta in volta alle esigenze tattiche del singolo momento, della singola formazione politica, addirittura del singolo esponente, sia esso istituzionale o di partito.
Della politica estera del governo Prodi, non più di un paio di settimane fa alcuni esponenti dell’opposizione andavano dicendo: “Magari ne avesse una, anche non condivisibile, ma almeno organica e animata da una visione chiara e da una strategia ben determinata”. Più o meno gli argomenti che hanno spinto colonnelli e soldati semplici dell’Ulivo, ora bollati come “nostalgici”, a sbattere la porta in faccia al Partito democratico: una formazione politica fatta di tattica e burocrazia, alla quale anche gli avversari preferirebbero un partito con qualche idea su cui confrontarsi.