Da Napolitano ci saremmo attesi un grazie a chi, ancora, rischia in proprio

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Da Napolitano ci saremmo attesi un grazie a chi, ancora, rischia in proprio

05 Gennaio 2012

Stiamo attraversando momenti assai duri, epperò, nonostante l’ovvio turbamento che questa difficile prova ci sta trasmettendo, coltiviamo la certezza che essa potrà servirci di futura lezione, ruvidamente insegnandoci le inevitabili conseguenze del colposo indulgere in pratiche di irrigazione, con infinito denaro cartaceo, di sterminate piantagioni di diritti di ogni genere, nella beata convinzione di poterlo fare per sempre. E siamo, a proposito, sinceramente convinti che sia stato giusto, da parte della massima carica dello Stato, mettere al corrente l’intera collettività nazionale della reale portata della situazione, al contempo formulando adeguate parole di incoraggiamento.

Ciononostante, qualcosa ci pare essere mancato nel presidenziale messaggio a reti unificate. Abbiamo, invero, apprezzato l’onestà con cui si è data evidenza della ipertrofia dello Stato che, a partire dagli anni Ottanta, “è cresciuto troppo e ha speso troppo”, anche se non possiamo dimenticare che chi adesso dà così fermamente conto del fenomeno era già, ai tempi, autorevole voce della Repubblica. Né è parso risolutivo l’enfatico auspicare il sorgere di una “nuova forza motivante" e di una “volontà collettiva indispensabile”, anche se è forse ragionevole attendersi, dai rappresentanti di una classe dirigente il cui contatto con il quotidiano è tradizionalmente deboluccio, il cedimento al potente fascino di artigianali produzioni metaforiche (e, per inciso, siamo qui ad interrogarci su quale, tra le due entità, abbia avuto il sopravvento nella recente strategia di insediamento governativo: la prima, si sarebbe tentati di dire, dato che la “volontà collettiva indispensabile” non ha avuto modo, in mancanza di apposite urne, di farsi sentire). Per tornare al tema che ci occupa, ci pare sia mancato, nel discorso del buon augurio, un riconoscente accenno a quei singoli che, nonostante tutto, ancora intraprendono e rischiano in proprio (arrivando persino, come in qualche recente occasione, a togliersi la vita, travolti da insormontabili difficoltà).

Non ci sorprendiamo di ciò, naturalmente: questo Paese è da mai palcoscenico su cui recitare le lodi dell’impresa individuale. In fin dei conti, anche gli italici frugoletti sanno che fare fortuna richiede il sordido cinismo della furbizia e l’oscena inumanità dello sfruttamento (e, del resto, l’abiezione morale dell’ ex caimano è da tempomateria di studio in molte scuole). E i “comportamenti diffusi, improntati a laboriosità e dinamismo”, cui si riferisce il testo quirinalizio e che il frettoloso fruitore potrebbe scambiare per un apprezzamento a mezza bocca nei confronti dell’iniziativa privata, diventano, poco più in là, volani non di reddito e profitto per il maggior numero di individui possibile, come ragionevolmente dovrebbe essere, ma (e qui la confusione ci pare massima) di “coesione sociale e nazionale”. La lezione è, del resto, cristallina: la creazione di ricchezza deve essere egualitaria e passare attraverso le ragionate fasi di una sobria azione governativa (ché l’idea stessa di accumulo privato, essendo di non rinomato pedigree collettivo, stona sempre un pochino e richiede, a prescindere, una “più severa disciplina”). E il pensiero del Colle ha davvero colto nel segno, visto che l’attuale premier, scambiando (in inatteso balbettio costituzionale) un routinario messaggio di fine anno per un (impossibile) pacchetto di indicazioni programmatiche presidenziali, ha sentito l’immediato dovere di confermare la propria incondizionata adesione operativa ad esso.

Eppure, a ben guardarla, la palude di debito in cui il Paese si dibatte è proprio figlia del maldestro tentativo di sostituire il libero e diseguale agire di eguali con la centralistica finzione livellatrice di banali trucchetti monetari. Di per sé, ciò dovrebbe essere motivo bastante a dissuadere la dirigenza politica nazionale dall’inseguire nuove fantasie di intervento in economia e a farle definitivamente accantonare la minaccia neo propulsiva della ormai leggendaria “Fase 2”. Purtroppo, però, le cose non sembrano andare nella direzione che ci si auspica e il coro cialtrone degli illusionisti di mestiere è massimo nel richiedere, in tragico paradosso, il soddisfacimento della diffusa sete di lavoro ad un esecutivo che ha da poco terminato di prosciugare i pozzi. E non si ritiene qui che basterà, per riempire i bicchieri, il tribunizio richiamo del primo cittadino a tempi in cui la salvezza ed il “progresso dell’Italia” sono stati consentiti dalla “capacità dei lavoratori e delle loro organizzazioni di esprimere slancio costruttivo”. are mitologia fondativa, infatti, ed in particolare in economia, è sempre piuttosto fuorviante.

Gli slanci costruttivi di una qualche utilità sono da sempre (“in natura”, si sarebbe tentati di dire) esclusiva caratteristica di pochi: quegli stessi, che, per solito, scelgono una vita di intrapresa per dare concretezza ai loro progetti. Se si ha la fortuna di avere una qualche abbondanza di costoro entro i confini nazionali sarebbe giusto, per così dire, tenerseli cari. E invece, odioso pregiudizio (politico, oltreché sociale) viene seminato oggi, così come lo è stato nei passati decenni, contro chi si decide per l’azione individuale (e non anche cooperativa, che allora pure le tasse divengono orrido fardello e certe amministrazioni locali protettive madri), creando tutte le condizioni (giuridiche, amministrative, fiscali) per la aprioristica rinuncia a piani di impresa o per il loro trasferimento verso lidi più accoglienti.

E dubbio lenimento possono fornire i sostegni promessi da molteplici entità pubbliche alle piccole iniziative lavorative che sorgono in seno alle categorie preferite dall’attuale discorso politico mediatico (giovani, donne, immigrati): è poco credibile, infatti, che burocrati comandati di surrogare, con timbri e carte bollate, il raro intuito e prezioso dell’imprenditore di razza, siano in grado di sostituirsi agli efficienti meccanismi del mercato. Né potrà essere di aiuto l’insistere, cosa su cui indulge, per la verità, anche il quirinalizio pennino, con la difesa ad oltranza di principi di giustizia ed eguaglianza, la cui rivendicazione (che mille volte si è risolta, nel discorso pubblico interno, in banale demagogia e financo in ossessione) ha oramai oggettivamente superato il segno, andando ben oltre la soddisfazione delle sacrosante istanze sociali che consentono di qualificare un Paese come civile.

Insomma, il Presidente ha giustamente sottolineato la (seppur tardiva) necessità di rivedere i costi dell’intero edificio statale (welfare compreso) e gliene va senz’altro dato atto. Epperò, maggiore coraggio avrebbe dovuto dimostrare, dedicando esplicita menzione ed un ringraziamento a quei singoli che, su varie scale e con il legittimissimo obiettivo del guadagno personale (riconoscerlo non è peccato), lottano tra mille difficoltà per creare (loro sì) il lavoro e la ricchezza di cui questa penisola ha disperatamente bisogno.