
Da Panama a Hong Kong, il riassetto globale USA – Cina

06 Marzo 2025
di Oscar Ngai
In meno di due mesi, l’elezione di Trump ha già portato tantissimi grandi e piccoli cambiamenti a livello internazionale e continuerà a riplasmare l’ordine politico di cui tutti noi siamo abbastanza incerti. Tra accordi e trattative, tutti gli attori attivi del mondo stanno tentando di assicurarsi una posizione sicura per questa fase di instabilità geopolitica. Anche la CK Hutchison di Li Ka Shing, proprietaria dei Porti di Panama e di tante infrastrutture sparse nel mondo, non ha aspettato minimamente a trovarsi un riparo.
Nonostante tutte le dichiarazioni da parte della CK Hutchison Holding che cercano di smentire l’intento politico della vendita dei suoi 43 porti sparsi nel mondo, è difficile pensare che non abbia subìto nemmeno un minimo di pressione da parte dagli statunitensi, dai cinesi o – in generale – dalla situazione geopolitica. Tra la notte del 4 e la mattina del 5 marzo, migliaia di giornali diffondono la notizia dell’accordo raggiunto tra la CK Hutchison e – non a caso – la Blackrock-Til americana per la vendita della filiale Hutchison Port Holdings Limited, azienda madre di tantissimi porti sparsi nel mondo, tra cui Taranto, Rotterdam e il Porto di Balboa.
La cessione della suddetta ditta – a prescindere dal prezzo della vendita – comporta grandi cambiamenti a livello strategico, più per l’ex-colonia britannica, ma un po’ meno per la Cina. Hong Kong – il porto numero 1 secondo il Container Port Performance Index fino al 2006 – non svolge più il ruolo dell’unico re-esportatore della Cina da quasi due decenni e pian piano sta uscendo dal palcoscenico del commercio Cina-mondo. Questo non significa che il porto non sarà più importante o che non abbia un’utilità, ma vuol dire che la città di Hong Kong sta diventando una città cinese come tutte le altre. Anche perché ora la Cina – a parte alcuni fattori – si sta maturando la propria consapevolezza che Hong Kong non sarà più così fondamentale come lo era una volta.
Negli anni ’90, il PIL di Hong Kong era paragonabile al 20% di quello di tutta la Cina intera. Nel secondo decennio degli anni 2000, gli corrisponde a male pena 2%. Questo forte ridimensionamento è dovuto sicuramente al forte sviluppo della Cina che ha avuto negli ultimi 40 anni, ma è anche dovuto al fatto che molte funzioni che la città di Hong Kong svolgeva, ormai le sanno fare quasi tutte le città cinesi: comunicazione internazionale, import-export, industrializzazione, urbanizzazione, logistica, la standardizzazione della burocrazia e tante altre. Occorre ricordare che attualmente tante esportazioni cinesi non vanno più con i mezzi portuali, ma anche con quelli ferroviari – soprattutto, transiberiani e centrasiatici.
La vendita dei 43 porti in qualche modo è frutto di una consapevolezza di Li Ka Shing che anche il suo impero multinazionale deve anch’esso trasformarsi per non tramontare. È anche vero che avendo 96 anni di età e intascando ben 175 milioni di dollari con una sola vendita risulta comunque una grande vittoria personale. Occorre aggiungere che Trump nel suo primo mandato aveva già sollevato Hong Kong dai suoi privilegi goduti nel commercio sino-americano. Perciò, i dazi applicati sulla Cina sarebbero applicati lo stesso sulla merce proveniente da Hong Kong, nonostante migliaia di proteste e dichiarazioni rilasciate dal governo hongkonghese sull’autonomia fiscale della città.
Trump ha come obiettivo quello di ribilanciare il deficit del bilancio di commercio ed è inutile negarlo, ci possiamo solo aspettare che Trump insistentemente attaccherà tante altre strutture sovranazionali e “magheggi” internazionali che hanno “danneggiato” il bilancio di commercio statunitense. Neanche il Canada e l’Unione Europea possono essere privi di conseguenze che, di fatto, sono già sotto gli occhi di tutti. Hong Kong non può fare altro che seguire le direttive di Pechino, soprattutto dopo le proteste del 2019, il Partito comunista cinese è diventato ancora più vigile sulla situazione della città. Hong Kong è parte delle trattative commerciali sino-americano. Se Trump non volesse che Hong Kong godesse dei privilegi doganali, la Cina sarebbe disposta a sacrificarla e ormai ha tutte le carte possibili.
Ad Hong Kong che cosa è rimasto? L’unica funzione tuttora insostituibile è quella fiscale-finanziaria. Il suo apparato finanziario ed amministrativo gli permette ancora di essere l’unico convoglio libero per il RMB. L’unica valuta con cui può scambiarsi liberamente è esattamente il dollaro di Hong Kong. Tra l’altro, il dollaro hongkonghese gode di una grande stabilità grazie al cambio fisso di 1USD = 7,8 HKD e al suo sofisticato sistema bancario. Ma anche qui, Trump ha studiato una sua strategia. Già nel 2019, l’amministrazione di Trump ha definito la Cina un “Currency manipulator”. La successiva ascesa di Biden e l’arrivo del COVID-19 hanno leggermente placato la situazione. Tuttavia, senz’altro il tycoon americano nel suo 2° mandato non ha intenzione di lasciar andare questa vicenda.
Fino a che punto Trump riesce a spingersi a forzare la Cina a liberalizzare il cambio di RMB? Fino a che punto è capace di prolungare l’egemonia della dollar diplomacy? Sarà lui – assieme al suo possibile successore Vance – a darci una risposta, con i suoi modi unici, con i suoi tempi e, a volte, con i suoi sbalzi d’umore. Hong Kong, nel frattempo, deve trovarsi una sua strategia di sopravvivenza, altrimenti potrebbe fare la stessa fine di tante repubbliche marinare della storia, come Venezia, Ragusa-Dubrovnik e Genova che sono sparite per sempre dal palcoscenico mondiale e che possono solo vivere di eredità pagine e pagine di gloria sulla loro storia.