
Da quando ha vinto il Jihad, la civiltà islamica è in pericolo

19 Agosto 2009
Sono nato in Iraq, da una famiglia musulmana mediamente osservante. A quel tempo, era il 1950, le elite politiche, culturali e intellettuali del Medio oriente erano prevalentemente laiche. Sembrava soltanto una questione di tempo perché l’Islam perdesse le residue influenze che ancora esercitava sul mondo musulmano. Anche quel termine – “mondo musulmano” – era inusuale, dato che per i musulmani era assai più normale identificarsi tramite la propria appartenenza nazionale, etnica o ideologica, piuttosto che per la propria religione.
Per un bambino impressionabile qual ero io, era chiaro che la società si stava allontanando dall’Islam. Sebbene lo studio della religione fosse obbligatorio a scuola, nessuno si metteva a insegnarci le regole della preghiera, né si aspettava che digiunassimo durante il Ramadan. Mandavamo a memoria alcuni brevi versi del Corano, ma il libro sacro rimaneva sugli scaffali o al massimo veniva riprodotto su dispense che, tra l’altro, assai raramente venivano lette. I più anziani continuavano a sobbarcarsi la fatica di un pellegrinaggio alla Mecca, dove avrebbero perso la voce nel gridare tutti i loro peccati – era più una sorta di politica assicurativa che un atto di contrizione.
Non mi ricordo mai, a quei tempi, di aver mai sentito parlare di “jihad”. La retorica politica del tempo si concentrava sui destini arabi e sull’anti-imperialismo. Un pizzico di fervore religioso affiorò durante la crisi di Suez, nel ’56, quando i programmi radiofonici del Cairo mandavano in onda canzoni marziali nelle quali si invocava l’aiuto divino contro l’invasione anglo-franco-israeliana; ma si trattò di un’eccezione. Le donne, e non solo nella mia famiglia ma in tutta la borghesia medio-alta di città, vestivano soltanto all’occidentale. Avevano da lungo abbandonato la hijab, ossia lo chador. L’unico mio legame a un’epoca premoderna ormai superata era mio nonno, che indossava soltanto tuniche dal taglio severo e una serie di turbanti avuti da un vecchio commerciante.
A parte le vacanze religiose, c’erano molto poche celebrazioni pubbliche di rituali islamici. Una di queste era il rito di Muharram, una preghiera sciita dedicata al nipote del profeta Maometto, Hussein, durante la quale assai spesso i partecipanti si abbandonano all’autoflagellazione, anche violenta; ma io ero caldamente consigliato di starne alla larga. Simili avvenimenti erano giudicati indegni di gente raffinata, per la quale era assai più consono ricordare la passione di quel martire in pacate serate dal sapore vagamente letterario.
La modernità scorreva dappertutto. Cinema e snack bar, cabaret e club esclusivi, alcolici e sex-parties. Baghdad si stava trasformando nella nuova Babilonia, il suo edonistico predecessore dell’antichità. E le cose, come si evince dalle testimonianze dell’epoca, non erano molto diverse al Cairo, a Casablanca, a Damasco, a Istanbul, a Giacarta, a Karachi, e a Teheran. Quando andai all’estero per la prima volta, nel 1958, ogni mio residuo interesse nella religione scemò ulteriormente con la frequentazione della scuola anglicana in cui ero andato a studiare, in Inghilterra. La presenza obbligatoria alle funzioni religiose e gli interminabili, ingarbugliati sermoni furono il poderoso alimento di un crescente disgusto verso qualsiasi forma di religione organizzata.
Tuttavia, col senno di poi, mi accorgo che i semi di un mio rinnovato interesse verso l’Islam potrebbero essere stati piantati proprio a quel tempo. Ebbi una reazione istintiva alle offese contro l’Islam che dovetti sopportare attraverso il mio percorso scolastico; potrei citare, ad esempio, il fatto di presentare i Crociati come prodi cavalieri che si opponevano alle scorrerie dei malvagi saraceni, o l’aver sentito descrivere i capi del cosiddetto “ammutinamento” indiano del XIX secolo come barbari assetati di sangue.
C’erano altri musulmani in quella scuola, per la maggior parte provenienti da un impero inglese in contrazione. Non erano diversi da me; provenivamo tutti dal medesimo retroterra laico. Nonostante il nostro risentimento verso il modo in cui veniva descritto l’Islam, la nostra presenza in Inghilterra appariva come la prova che la civiltà moderna fosse ancorata saldamente all’Occidente. Il nostro passato islamico poteva essere stato glorioso, ma proprio quello era: il passato. Il futuro era in Occidente; e più era occidentale, meglio era.
Ho passato la maggior parte dei miei ultimi anni scolastici sognando l’America. Nel 1964, quando iniziai i miei studi al Massachusetts Institute of Technology, era impossibile non essere risucchiato nelle convulsioni politiche e culturali dell’epoca, anche se si era nuovi arrivati. Partecipai con grande entusiasmo a sit-in e teach-ins (ciclo di lezioni su determinati argomenti, ad esempio i teach-ins sul Vietnam – ndr), a proteste per i diritti civili e contro la guerra. Ero affascinato dalla lotta per l’affermazione dei neri in America, che dimostrava come un movimento animato da alti principi potesse provocare grandi cambiamenti. Martin Luther King Junior era tutt’altra cosa rispetto agli uomini dell’establishment ecclesiastico che avevo incontrato in Inghilterra. E Malcolm X era un musulmano praticante. Cominciai a pensare all’Islam come a un motore del cambiamento sociale.
Più tardi, come molti altri giovani negli anni Settanta, mi preoccupai di cercare un’etica con cui riempire il vuoto spirituale e morale di quel periodo, per trovare un contrappeso interno che bilanciasse gli eccessi della controcultura. Questi pensieri trovarono espressione in uno scenario improbabile, la Londra del 1976, nel mezzo della disintegrazione dell’economia britannica alle prese con conflitti lavorativi e con le prime avvisaglie di un’imminente iperinflazione. Tra aprile e giugno, la capitale inglese ospitò il Festival mondiale dell’Islam, un evento che ambiva a portare in Occidente la ricchezza e la diversità della cultura e della civiltà islamiche. Ancor più importante, mostrò l’unità della civiltà islamica al di là della diversità delle lingue, delle nazionalità, delle culture.
Il festival era animato dallo spirito di uno dei grandi e non celebrati eroi dei tempi moderni, il raja di Mahmudabad, che fu tra i promotori di quell’evento. Muhammar Amir Ahmad Khan – o Raja Sahib, come era conosciuto da tutti noi – morì nel 1973. Lo conobbi alla fine degli anni ’60, me lo presentò un suo parente che era mio amico. Mentre stavo prendendo il dottorato alla London School of Economics and Political Science, lo andavo spesso a trovare nella sua piccola casa, che si trovava vicino sia alla moschea di Regent’s Park sia al centro di cultura islamico, di cui era direttore. Il raja era un’idealista votato all’uguaglianza; il suo Islam era legato indissolubilmente alla realizzazione di opere caritatevoli. Per esprimere la sua solidarietà verso i poveri, eseguiva lavori manuali, indossava spesso grezzi abiti fatti in casa e camminava scalzo. Era una persona spirituale, addirittura mistica nelle sue tendenze, e la sua passione caratterizzava le serate passate in sua compagnia. In qualche modo, riusciva a combinare una profonda fedeltà all’Islam con una propensione in lui naturale verso ideali sociali, addirittura rivoluzionari. Ebbe su di me un’influenza profonda, di cui non fui consapevole fino al festival del 1976.
Il festival è stato lungamente criticato per essere stato un evento elitario, non sufficientemente rappresentativo della reale cifra sociale e politica dell’Islam. In retrospettiva, qualcuna di quelle critiche può anche essere ritenuta valida. Il fattore politico non venne sviluppato adeguatamente anche perché la diaspora verso l’Occidente non era ancora un tema controverso, e anche perché l’Islam come forza politica non era ancora apparso. Il festival era assai vasto, ma il marchio dei tradizionalisti – il filosofo Seyyed Hossein Nasr, lo storico dell’arte Titos Burkhardt, il curatore museale Martin Lings – era evidente in numerose pubblicazioni ed eventi, caratterizzati da una marcata inclinazione alle più intime tradizioni islamiche.
I tradizionalisti, che seguivano il solco tracciato dal metafisico francese René Guénon, legavano la vitalità creativa della società musulmana prima di tutto al suo nocciolo spirituale, alla spinta che portava il credente a cercare, trovare e infine esprimere le manifestazioni di Dio nel mondo. Per loro, il cuore dell’Islam risiedeva più nella sua dimensione spirituale che nel dogma, nella dottrina e nelle sacre leggi, la Shariah. Il pensiero tradizionalista non è mai stato scevro da controversie, né allora né oggi, sia rispetto allo stesso Islam sia rispetto alle altre religioni; in particolare, è assai dibattuta l’affermazione secondo cui tutte le grandi tradizioni religiose si incontrano in qualche elevato principio di spiritualità che tutte hanno in comune. In ogni caso, all’epoca, si trattò di una sorprendente, nuova e rinfrescante presentazione dell’Islam.
Senza volerlo, ero inciampato in un’immagine dell’Islam completamente nuova, non meno ricca di promesse per il futuro di quelle che potevano offrire le forze dell’Islam politico, che cominciarono a prendere forza proprio nel 1970 con l’emergere dei movimenti islamici, in Medio Oriente e non solo. Spesso in contrasto l’una con l’altra, queste due correnti dell’Islam da allora hanno dominato la mia vita: da una parte la dimensione intima e mistica della fede, dall’altra la sua espressione esterna, politica e sociale. Ma è l’eclisse della prima, e il modo in cui l’Islam è inteso quasi esclusivamente in termini politici e dottrinari, che provoca in me profonda preoccupazione circa il futuro della civiltà islamica.
Pochi anni dopo il festival di Londra, l’attenzione del mondo si volse alla rivoluzione iraniana. L’Islam politico irrompeva sulla scena mondiale, e, qualunque cosa se ne pensi, quella rivoluzione, guidata dagli sciiti, raccoglieva le speranze e le paure di milioni di persone in tutto il mondo. Contemporaneamente, un analogo scompiglio attraversava i sunniti. La jihad contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan segnò l’ascesa di una categoria estrema dell’islamismo militante.
La gente di tutto mondo – e i musulmani in particolare – si trovò di fronte a una serie di domande volte a definire quale potesse essere il giusto posto dell’Islam nella società. Dovevano, i musulmani, sforzarsi di fondare uno stato islamico? La Shariah è compatibile con la modernità, la democrazia, i diritti umani? Oserei dire che ogni singolo musulmano ha dovuto fare i conti, in un modo o nell’altro, con l’influenza dell’Islam politico; ciò è vero sia per chi ha reagito con allarme, perplessità e ansia, rifiutandolo, o per chi invece ha abbracciato entusiasticamente l’idea di un ruolo più centrale della religione in politica. (continua…)
Tratto da The Chronicle Review
Traduzione di Enrico de Simone