Da Ron Paul a Geert Wilders, Europa e America riscoprono l’isolazionismo

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Da Ron Paul a Geert Wilders, Europa e America riscoprono l’isolazionismo

23 Febbraio 2010

Tra le due sponde dell’Atlantico s’avanza un genere di leader politici isolazionisti, ultraliberali e conservatori, che se dovessero imporsi sulla scena pubblica dei rispettivi Paesi metterebbero a dura prova il pilastro della politica estera occidentale degli ultimi decenni, l’interventismo democratico e la lotta contro le tirannidi e il terrorismo internazionale.

L’ultimo sondaggio pre-elettorale della Conservative Political Action Conference (CPAC), termometro del consenso nel Partito Repubblicano, la scorsa settimana ha offerto la palma del politico più convincente al 74enne deputato texano Ron Paul, alias “Mister No”, per la sua testardaggine nel votare contro qualsiasi legge che violi anche lontanamente i principi della Costituzione americana. Paul ha ottenuto un sorprendente 31 per cento di consensi, staccando di 10 punti il mormone Mitt Romney e stracciando la beniamina della Destra sociale e religiosa Sarah Palin, ferma al 7 per cento.

Intanto, nella piccola Olanda, un altro libertario conservatore usciva rafforzato dal crollo della coalizione di centro-sinistra guidata dal premier Balkenende: l’ossigenato Geert Wilders, noto alle cronache per aver prodotto un film – Fitna – violentemente anti-islamico e in cui si paragona il Corano a Mein Kampf. Negli ultimi tre anni, il “Partito della Libertà” è costantemente salito nei sondaggi trasformandosi nella terza forza del Paese e imponendo Wilders come una figura di primo piano dello spettro politico olandese. Alle prossime elezioni il Freedom Party sembra destinato a superare i Laburisti e ad insidiare i Cristiano-democratici. La stampa olandese ha già scritto che Wilders ambisce al posto di primo ministro, in ossequio a quella provocatoria affermazione di Daniel Pipes che lo ha giudicato “il più importante uomo politico vivente oggi in Europa”.

Ron Paul e Geert Wilders hanno piattaforme programmatiche che coincidono, in politica interna come in quella estera. Sono espressione di forze che vanno distinte dal neofascismo e dall’estremismo di destra, con cui spesso vengono confusi o sovrapposti. Nascono piuttosto da una insofferenza antipartitocratica, da quel movimentismo populista che in America come in Europa guarda con un misto di odio e sospetto alle lobby che governano Washington e Bruxelles, rifiutando il primato dello Stato Federale e del Superstato europeo. Li unisce una visione che si nutre di liberismo classico e guerra aperta al Big Government, politiche fortemente restrittive verso il fenomeno migratorio, uno spiccato isolazionismo, solo presunto oppure orgogliosamente rivendicato, che una volta ha spinto Ron Paul a chiedere l’uscita degli Usa dalle Nazioni Unite e dalla Nato.

Il medico ginecologo Paul è uno dei beniamini dei giovani americani, del popolo internettiano (è stato il personaggio politico più cliccato su Google nel 2007) e degli insorgenti Tea Party, il movimento indipendente in cui sono confluiti repubblicani delusi dall’establishment conservatore e democratici che si sentono traditi dal Presidente Obama. Propone un’America completamente in mano al libero mercato che fondi il suo sviluppo sull’impresa privata e sulla fine di ogni tassazione, attraverso un bel colpo di spugna ai bailout e agli interventi pubblici, a tutte le forme di sovvenzione e di assistenza, compreso un drastico taglio delle spese militari. Le truppe americane – secondo Paul – dovrebbero essere utilizzate per pattugliare i confini del Paese e contenere la pressione migratoria che arriva dal Messico, visto che gli Usa sono schiavi del NAFTA e di altri accordi internazionali che ne hanno minato la sovranità e l’indipendenza.

L’ideale di Paul sarebbe uno “stato minimo” che al suo interno ceda sempre più autonomia al singolo individuo e che all’esterno pratichi un ripiegamento totale da ogni fronte militare in cui sono attualmente impegnati gli Usa. Dall’Afghanistan all’Iraq (fu l’unico repubblicano a votare "no" contro la guerra a Saddam Hussein). Da questo punto di vista, Paul si differenzia dalla destra sociale che, pur tendendo verso l’isolazionismo, ha combattuto il terrorismo a fianco di Bush, avvicinandosi alla ideologia paleoconservatrice, come pure a quella dell’estrema sinistra verde e pacifista.

Anche l’irriverente Geert Wilders ha in mente un’Olanda più “small”, in cui siano ridotte le regole statali e tagliata la spesa per il welfare: ha proposto di eliminare il ministero dell’economia e quello dell’istruzione e di ridurre i servizi pubblici del 50 per cento. E’ un alfiere della lotta contro il fisco ma voleva introdurre una tassa per le donne islamiche che intendono vestirsi seguendo i loro precetti religiosi. La sua politica sull’immigrazione prevede soluzioni drastiche, e con ogni probabilità, fin troppo efficaci, come quella di bloccare per cinque anni l’ingresso agli immigrati non occidentali nel Paese. Wilders è convinto che gli immigrati, in particolare quelli di origine araba e musulmana, non entrino in Olanda perché attratti dalla Storia e dal modello sociale fiammingo, ma solo per succhiarne avidamente i sussidi e le garanzie. In un discorso tenuto di fronte al Parlamento, il 28 settembre scorso, ha detto che “il governo si rifiuta di dire ai cittadini quanto ci costa la presenza di una immigrazione di massa e non occidentale”, aggiungendo che la cifra stanziata nel solo 2009 è stata pari a 13 miliardi di euro. Il leader dell’FP vorrebbe offrire dei vantaggi a chi decide di lasciare l’Olanda per tornare a casa.

Né Paul né Wilders fanno della politica estera il loro cavallo di battaglia, ma se il primo è storicamente coerente al principio del non-interventismo, convinto che l’America possa tranquillamente fare da sola, la posizione del secondo appare scaltra quanto ipocrita. Wilders è salito nei sondaggi sfruttando la stanchezza dell’opinione pubblica verso la guerra in Afghanistan, che ha strappato la vita a 21 soldati olandesi. Il chiomato leader dell’FP non ci ha pensato un attimo a giocare la carta del ritiro da Kandahar, nonostante quegli uomini in uniforme rappresentino l’avamposto occidentale che permette ai politici europei di ergersi a paladini della libertà di parola in Patria.

Wilders è finito sotto scorta (e anche sotto processo) per aver detto che Maometto era “un barbaro”. Perfino Pipes, che non è certo una colomba, ha preso le distanze da queste dichiarazioni (“Personalmente combatto gli islamisti con tutte le mie forze, ma rispetto la religione islamica”). I maligni suggeriscono che Wilders abbia deciso di sposare la causa del ritiro dall’Afghanistan quando ha saputo che per implementare il surge nell’Uruzgan i soldati olandesi della missione Isaf regalavano copie immacolate del Corano ai locali… Un vero delitto per uno che ha chiesto ai musulmani di "strappare in due" il loro libro sacro se intendono vivere ad Amsterdam e dintorni.

Ecco allora che personaggi fra loro geograficamente lontani come Paul e Wilders finiscono per incarnare un trend che si sta diffondendo a macchia di leopardo fra America ed Europa. Come abbiamo scritto ieri sulle pagine dell’Occidentale, Vecchio e Nuovo Continente tendono a isolarsi, a rinchiudersi sempre di più su stessi, angosciati dalla pressione migratoria (islamica per Wilders, latina secondo Paul). In questo modo, finiscono per chiudere gli occhi davanti a quello che avviene nel resto del mondo. Proviamo un moto di simpatia per alcuni lati di questa mobilitazione, come la reazione all’inasprimento della pressione fiscale o la lotta contro la "statolatria". Condividiamo anche l’allarme sulla preservazione della identità occidentale che rischia di farsi sempre più residuale. Ma non possiamo non denunciare i tratti paranoici e vagamente anarcoidi di un modello che lascerà l’America sempre più sola e i suoi Alleati più deboli di quanto non credevano di essere.