Da terrorista a totalitaria, la Corea del Nord non cambia mai

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Da terrorista a totalitaria, la Corea del Nord non cambia mai

20 Ottobre 2008

Scendendo dall’autobus, attraversiamo il cortile e ci fermiamo di fronte ai bassi edifici blu: qui, nell’Area Comune di Sicurezza – uno spazio neutrale tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, che dall’armistizio del 1953 si trova sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite – si assiste a uno degli scenari più assurdi del mondo. A meno di cento metri da noi, i soldati nordcoreani ci guardano da una terrazza, senza alcuna espressione: dirigersi verso di loro equivale ad un’imperdonabile defezione. Dietro di noi, con la stessa espressione impassibile, i soldati sudcoreani osservano la scena al riparo dei loro occhiali da sole, con l’arma al fianco e i pugni chiusi. Se qualcuno avanzasse verso di noi, lo ucciderebbero.

Una scena altrettanto bizzarra ha luogo all’interno degli edifici blu. Qui si trova da più di cinquant’anni un tavolo per i negoziati, posizionato esattamente lungo la linea di demarcazione del confine: da un lato del tavolo si è in Corea del Sud, dall’altro in Corea del Nord. La maggior parte di noi fa un passo oltre la linea, solo per vedere che effetto può fare trovarsi ‘’di là’’. Poi, sotto il peso opprimente di quel confine invisibile, si torna dall’altra parte quasi di fretta. Dopo questo piccolo rituale, la nostra guida americana conduce il nostro gruppo nella zona demilitarizzata per una breve passeggiata. Ci viene indicato il "Freedom Village", che vuole ricordare una piccola ma affluente città nella parte meridionale (pare che gli abitanti guadagnino una fortuna vendendo ginseng e non pagando le tasse); e il "Propaganda Village" nella parte nord – dove la maggior parte degli edifici nuovissimi è ancora deserta.

Ci vengono poi indicati i punti dove, nel 1976, i soldati nordcoreani attaccarono alcuni militari statunitensi che si erano inoltrati nella zona demilitarizzata meridionale per potare un albero, e il luogo dove due di loro vennero uccisi a colpi d’ascia. Tre giorni dopo, un’intera unità americana – con l’appoggio di 20 elicotteri, 7 Cobra, qualche bombardiere B-52 e una portaerei in appoggio sulla costa più vicina – organizzò un’incursione, abbattendo l’albero. È evidente che a Panmunjom, dove regnano strani rituali e tradizioni curiose, non si vive di soli cliché ma di un’atmosfera kitsch che risale alla Guerra Fredda degli anni Cinquanta, che contribuisce a renderlo un surreale luogo senza tempo – quasi quanto la stessa Corea del Nord.

Tutto questo non è affatto una rivelazione: Panmunjom è da più di cinquant’anni un monumento vivente alle paurose stranezze della Corea del Nord. Tuttavia, a pochi giorni dall’annuncio della decisione del Presidente Bush di rimuovere la Corea del Nord dall’elenco degli Stati che finanziano il terrorismo, vale la pena soffermarsi ancora una volta sulla particolare – e peculiare – natura delle relazioni tra questo paese ed il resto del mondo. L’annuncio in sé, peraltro, può considerarsi altrettanto peculiare.

Per inciso, la Corea del Nord ha venduto le proprie conoscenze tecnologiche in campo missilistico alla Siria ed alla Libia, ha assassinato personalità diplomatiche, sequestrato cittadini giapponesi e sudcoreani, e si è rifiutata di fornire informazioni dettagliate sulla loro sorte. La Corea del Nord imprigiona i suoi cittadini in campi di concentramento che ricordano fino ai minimi dettagli quelli costruiti da Stalin, ed i suoi governanti volontariamente affamano la popolazione fino a provocarne la morte. Secondo qualsiasi definizione normale, la Corea del Nord è ancora uno ‘’Stato terrorista’’, e tutti ne siamo consapevoli.

La decisione dell’Amministrazione Bush non è quindi da intendersi come il riconoscimento di un mutamento nella condotta della Corea del Nord. Si tratta piuttosto di una negoziazione, di uno scambio di parole: noi ritiriamo il termine ‘’terrorista’’, in cambio – ancora una volta – della “promessa” da parte nordcoreana di rinunciare al nucleare. Sono stati concessi favori altrettanto ritualistici per sancire questa negoziazione: forse in segno di rispetto per la persona che ha caldeggiato l’accordo – il vicesegretario di Stato americano Christopher Hill – è  stato permesso in occasione della sua ultima visita di raggiungere la Corea del Nord in auto attraversando Panmunjom, invece che utilizzare forzatamente l’aereo da Pechino.

Esistono sicuramente altri elementi ‘’concreti’’ che hanno inciso sull’accordo. Molto probabilmente si tratta di denaro, promesso sottoforma di aiuti, nonostante nessuno sia realmente convinto che questi soldi andranno alla popolazione che ancora una volta sta morendo di fame. Si è parlato anche di sistemi di controllo più avanzati, sebbene anche in questo caso si dà per scontato che i nordcoreani tenteranno di eluderli. In ogni caso, come la Casa Bianca – che così a lungo si è dichiarata contraria a qualsiasi negoziato con la Corea del Nord – intenda razionalizzare la propria decisione è ancora tutto da vedersi. Forse c’è una logica nascosta di qualche tipo. Forse l’Amministrazione confida nel fatto che il dittatore invisibile, Kim Jong Il, sia veramente morto. Oppure ha paura che, continuando a mantenere una linea dura, Pyongyang farà esplodere qualche altro ordigno nucleare a sorpresa, magari proprio il giorno delle elezioni americane.

Quello che però non posso credere è che si tratti di un vero negoziato, e con questo intendo che si stia assistendo ad un processo il cui esito finale porti all’abbandono del programma nucleare della Corea del Nord o a più civili relazioni tra la parte meridionale e settentrionale del paese. Tale eventuale negoziato, fondato sulla reciproca fiducia, su controlli stringenti e sulla cooperazione, sarebbe unicamente possibile avendo come interlocutore un regime che comprenda prima di tutto questi concetti – fiducia, regole, collaborazione. Un regime, in altre parole, molto diverso da quello che detiene oggi il potere nella Corea del Nord, a prescindere dalle nostre dichiarazioni ufficiali.

Tratto da "Washington Post", 14 ottobre 2008

Traduzione Alia K. Nardini