Dai negoziati ancora nessun indizio sul futuro del Kosovo

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Dai negoziati ancora nessun indizio sul futuro del Kosovo

24 Ottobre 2007

Nella nebbia dei negoziati sullo status del Kosovo quello
che si sta perdendo è il perché. Mentre ieri l’ennesima riunione a Vienna si è
conclusa in un nulla di fatto ci si chiede perché la troika composta dall’Unione
Europea, la Russia e gli Stati Uniti abbia proposto un documento in 14 punti
nel quale la parola status compare appena. Hanno dimenticato che cosa stanno
negoziando e perché? Qualcuno se lo ricorda?

Sono passati solo otto anni dal 1999, quando la NATO ha
bombardato la ex-Repubblica della Yugoslavia, della quale la Serbia si sente
erede legittima, perché quel paese si era accanito con violenza contro la sua
stessa popolazione: gli albanesi del Kosovo. La guerra violò la sovranità di
Belgrado sulla regione. La Russia vi si oppose, ma con la pace arrivò la
risoluzione dell’ONU 1244, approvata anche da Mosca.

La 1244 decise la sospensione della sovranità della
Serbia sul Kosovo e la facilitazione “di un processo politico per determinare
il futuro status del Kosovo, tenendo conto degli accordi di Rambouillet”
[S/Res/1244 (1999) 11 9e)]. Il capitolo 8 degli Accordi di Rambouillet stabilì
che la decisione finale sul Kosovo deve essere determinata dalla volontà del
popolo.

Su questa base la richiesta  di un referendum sul futuro politico della
provincia è legittima, come la Commissione Internazionale Indipendente sul
Kosovo riconobbe. Non solo. La stessa Commissione scrisse che “il
Rappresentante Speciale del Segretario Generale ha il potere di formulare le
domande da porre nel referendum sullo status futuro del Kosovo”. Non è
necessaria nessuna approvazione del Consiglio di Sicurezza.

Ma allora si era nell’anno 2000. Il Kosovo è diventato un
protettorato delle Nazioni Unite e non si è più parlato di status fino a
Novembre del 2005, quando il Gruppo di Contatto definì “una priorità internazionale”
la soluzione negoziata dello status del Kosovo. “Una volta avviato – dissero i
diplomatici – il processo non può essere bloccato e deve essere portato a
conclusione”. Due anni dopo, il processo è stato bloccato dall’incapacità del
Consiglio di Sicurezza di trovare un accordo. Ma su cosa esattamente?

La 1244 e Rambouillet hanno già mostrato la strada,
coerentemente con la legge e la morale: la decisione a chi deve essere
garantita la sovranità del Kosovo appartiene alle donne e gli uomini che ci
vivono. Il Kosovo è una terra contestata tra Belgrado e Pristina. Il problema è
che, in un mondo che promuove la democrazia e la libertà, è il territorio che
segue il popolo e non viceversa.

Nella nebbia dei negoziati, tutto questo si è perso in
incontri senza fine in diverse capitali, promesse senza senso, e scadenze che
sono state spostate sempre più in là. 
Non sorprende che il documento della troika si concluda con un ritorno
allo status quo: un Kosovo protettorato internazionale, con nessuna prospettiva
di diventare indipendente, come vorrebbe la volontà popolare.

Queste conclusioni dimenticano l’ovvio. Il punto di
partenza dei negoziati non era di mantenere lo status quo dandogli un altro
nome (passando da UNMIK a EUMIK e chiamando quest’ultima “Presenza Civile
Internazionale” tanto per confondere le acque). Al contrario, era la presa
d’atto che lo status quo non era più sostenibile, come messo in evidenza dallo
stimato diplomatico norvegese Kai Eide.

Nel giugno 2004 Eide fu mandato in Kosovo dal Segretario
Generale dell’ONU per una inchiesta sulla situazione che da stabile si era
improvvisamente tramutata in una emergenza, con violente manifestazioni di
strada che presero di mira case e luoghi religiosi serbi e proprietà dell’ONU.

Eide trovò una maggioranza albanese nervosa, una
minoranza serba impaurita, e una missione ONU incapace di raccogliere intelligence
e priva di direzione – “una operazione statica, ripiegata su stessa,
frammentata e di routine”. Eide propose una “nuova strategia” basata “sulla
realizzazione che il futuro status del Kosovo deve essere immediatamente
risolto”.

Non c’è nulla, nei 14 punti che la Troika ha appena
presentato, che metta in chiaro come verrà definito il futuro assetto del
Kosovo. Il documento infatti si limita a stabilire che “non ci sarà un ritorno
allo status precedente il 1999”, che “Belgrado non governerà più il Kosovo”,
“non ristabilirà una presenza fisica” nella regione, “non interferirà nelle
relazioni di Pristina con le istituzioni finanziarie internazionali”, e che “il
processo di Stabilizzazione e Associazione del Kosovo continuerà senza che
Belgrado ponga ostacoli”.

Allo “status” la Troika si riferisce nuovamente solo alla
fine del documento e ancora una volta in maniera vaga, per affermare che “la comunità
internazionale manterrà una presenza civile e militare in Kosovo anche dopo che
lo status sarà deciso”.

Bisogna che la mente faccia grandi contorsioni per capire,
in concreto, cosa significa tutto ciò. Nei negoziati c’è abbondanza di retorica
sui diritti umani, i diritti delle minoranze, la democrazia e la legge.  Eppure, anche se ci sono abbastanza prove che
la comunità kosovara ha il diritto di diventare indipendente tramite lo strumento pacifico e democratico del referendum, questo diritto le
viene negato.

La giustificazione formale di questa negazione è che una
soluzione negoziata ha bisogno di essere approvata da tutte le parti e la
Serbia non concederà mai l’indipendenza del Kosovo. La realtà è che la troika,
come i generali ateniesi di Tucidide nella conferenza di Melos, non hanno tempo
o pazienza per la giustizia o la legge: la questione della giustizia, dopo
tutto, “esiste solo tra partiti che sono uguali, e il forte fa quello che può e
il debole si sottomette”.  Si
sottometteranno i deboli questa volta? E perché mai dovrebbero sottomettersi?