Dai “No-Triv” alle Biomasse, quel partito dei NO che impedisce la crescita

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Dai “No-Triv” alle Biomasse, quel partito dei NO che impedisce la crescita

09 Aprile 2013

Pur muovendosi nell’odierno paradigma dell’incertezza, la letteratura scientifica racconta un cambiamento epocale negli approvvigionamenti energetici. Alle tradizionali fonti fossili si affiancano le cosiddette rinnovabili, in un pluralismo energetico che vede l’Unione Europea schierata in prima linea con la controversa strategia del "20-20-20".

Prendiamo le biomasse. Una parte consistente della comunità scientifica oggi concorda sul fatto che il saldo costi/benefici di questa tipologia di rinnovabili sia positivo. Sul medio e lungo periodo, sarebbero meno inquinanti rispetto al fossile. Non si capirebbe altrimenti perché grandi Paesi come Germania, Gran Bretagna e Spagna ci hanno investito mentre in Italia si procede a macchia di leopardo. 

Da noi infatti alle tradizionali scomuniche contro le estrazioni petrolifere si è aggiunto anche il sospetto che le centrali a biomasse siano un pericolo per la salute. Vecchie e nuove tecnologie, oro nero e “petrolio verde”, secondo alcuni recano la stessa minaccia alle popolazioni e ai territori. Un caso di scuola di questo malinteso ambientalismo è l’Abruzzo.

IL CASO POWERCROP. Recentemente ENEL Green Power e Seci Energia hanno acquisito il 50 per cento di Powercrop, la società che dovrebbe riconvertire l’ex zuccherificio Eridania di Celano in un impianto a biomasse, ma invece di scommettere su investimenti, occupazione, new economy, a farla da padrone sul web e nelle piazze è il Partito del NO, NO a Powercrop, NO alle biomasse, NO alla riconversione dello stabilimento.

Sindaci, esponenti della vita politica locale, sigle dell’associazionismo ambientalista, comitati di cittadini, blog e siti web, dettano il “pensiero unico” sull’argomento favoriti dalle lungaggini amministrative giudiziarie e burocratiche. Oscure lobby e speculatori che fanno affari grazie all’economia assistita dallo Stato – ecco l’accusa – sarebbero pronti a mettere a repentaglio il patrimonio naturale e agricolo ma soprattutto la salute dei cittadini abruzzesi.

Ma allora come mai il professor Carlo Soave, che insegna Fisiologia Vegetale all’Università di Milano, sostiene che la riduzione delle emissioni di CO2 delle biomasse rispetto alle altre fonti fossili è di circa il 60%? Il protocollo di Kyoto – non un pericoloso bollettino negazionista – considera le bioenergie carbon neutral. E se volessimo davvero provocare i partigiani del climate change diremmo che non bisogna dare per scontato che l’aumento di CO2 nell’atmosfera è legato solo a fattori antropici.

IL CASO OMBRINA MARE. L’ambientalismo declinista che predica contro le biomasse protesta anche contro le estrazioni petrolifere al largo delle coste abruzzesi. Oggetto degli strali è l’impianto Ombrina Mare, ennesimo “attentato” al patrimonio naturalistico della Regione Verde d’Europa (e le pale eoliche che hanno distrutto il paesaggio italiano allora?) senza ricadute concrete in termini di risparmio energetico e incremento occupazionale. Eppure lo 0,02 per cento di territorio petrolizzato in Abruzzo dà lavoro a circa 6.000 persone e nel corso degli ultimi decenni il numero dei pozzi aperti è progressivamente diminuito.

Si evoca in modo un po’ terroristico il disastro petrolifero nel Golfo del Messico spiegando che un incidente in Adriatico, un mare chiuso, avrebbe conseguenze devastanti per l’ecosistema marino. Peccato che in 75 anni di attività estrattiva in Abruzzo non si siano registrati incidenti degni di nota. Che la pressione marina nel Golfo del Messico non può essere certo paragonata a quella nelle coste dell’Adriatico. E che in Atlantico la testa di pozzo dell’impianto era situata a centinaia di metri di profondità, al contrario di quanto avverrebbe da noi, rendendo quindi più sicuro il contenimento di eventuali sversamenti. 

«Non nego che sia necessario ascoltare il punto di vista dei cittadini che sono contrari a queste opere per giungere a soluzioni condivise,» ci dice l’onorevole teramano Paolo Tancredi (Pdl), «mi chiedo però come sia possibile parlare di crescita economica se poi rinunciamo a qualsiasi opportunità di investimento». Su Ombrina Mare, Tancredi ha un’idea precisa: «D’accordo con il Governo centrale, le amministrazioni locali potrebbero negoziare regole stringenti sulla sicurezza e soprattutto royalties più alte, generando una ricaduta positiva per il territorio com’è avvenuto in Basilicata». Il 70 per cento delle attività del Porto di Ortona, per esempio, si basa sulla industria petrolifera e il suo indotto. «Che facciamo, chiudiamo il porto?».

E’ solo una delle tante domande che il “No Triv” – il movimento contro le trivellazioni – ha imparato a eludere con accortezza. Sul petrolio come sul nucleare e perfino sulle biomasse c’è una pregiudiziale infinita che sconfina nell’irrazionalità tipica di quei movimenti fondati su un’idea particolaristica e al limite autarchica dello sviluppo. I difensori dell’esistente preferiscono giocare ai flash mob contro Ombrina Mare, spalleggiati da una politica che di mestiere sa contestare senza offrire soluzioni concrete. Del resto, «il nostro programma per il cambiamento», ha detto la capogruppo M5S alla Camera, davanti a un basito Pierluigi Bersani, «si realizzerà nell’arco dei prossimi vent’anni». Anche se fosse vero il Paese non può aspettare tanto.