Dai territori l’alternativa a rottamazione e antipolitica
29 Novembre 2015
La politica italiana è drammaticamente in debito di ossigeno. A scriverlo non si fa nessun regalo all’immaginazione, né tantomeno si rivela chissà quale inconfessabile segreto. Smarrita la capacità di analizzare la realtà e di interpretarla attraverso schemi concettuali innovativi, i partiti sono oggi la copia sbiadita, per utilizzare un eufemismo, di quello che furono un tempo, ossia il perno del processo di socializzazione politica, il laboratorio formativo di idee e proposte, il canale attraverso cui selezionare la classe dirigente chiamata ad assumere anche responsabilità di governo.
Ridotte a semplice megafono del leaderismo imperante, le forze politiche si rivelano incapaci di garantire ciò che viene loro chiesto, in primo luogo assicurare la funzionalità alle istituzioni che reggono il telaio del nostro impianto costituzionale, leggasi l’ennesima fumata nera per la scelta dei giudici della Consulta. Certo, questo processo di delegittimazione affonda le radici in epoche lontane, e sarebbe assurdo non riconoscerlo, però mai come in questo torno di tempo la disaffezione dei cittadini e la quota crescente di chi preferisce rifugiarsi nell’astensione piuttosto che esprimere un voto di preferenza, dovrebbero aprirci gli occhi.
Invece no. La politica ha dapprima cercato conforto nella rottamazione, formula magica che ha ridato entusiasmo a chi l’ha ingenuamente vissuta come panacea di ogni male, salvo poi doversi accorgere che la battaglia per il "pensionamento" delle persone finiva per sottrarre energie al confronto tra visioni strategiche e differenti pensieri. Riducendosi a quel che oggi appare: lotta spregiudicata tra fazioni contrapposte per la conquista di sempre più ampi spazi di potere.
Tra le macerie ancora fumanti, non si ha più la forza, né la voglia, di uscire dal groviglio di errori e contraddizioni perché all’orizzonte si staglia adesso il mito della "società civile", la scorciatoia da imboccare senza se e senza ma. Anche questo denota l’arroccamento dei partiti, incapaci di guardare oltre il palmo del proprio naso (il Palazzo), per spingersi verso luoghi inesplorati, ovvero sui territori dove cresce e si forma, a contatto con i problemi reali e quotidiani dei cittadini, una nuova classe dirigente che abbina identità, azione, sacrificio, pragmatismo e positività.
Non c’è da stupirsi se poi ci si ritrova come il Partito democratico di Matteo Renzi, che oscilla tra Nazione e confusione, identità e trasformismo, Fassino e Marino, il tutto cementato da slides e tweet in ossequio ai tempi che cambiano. Individuare soluzioni positive per il governo delle città significa predisporsi al rapporto fecondo con quel territorio in grado di forgiare un patrimonio umano, ideale e culturale di assoluto valore: impresa ostica per un premier-segretario certo abile nella fase destruens, ma che denota una disarmante miopia nel momento in cui bisogna dare concretezza e respiro lungo alla prospettiva.
Da qui gli strafalcioni degli ultimi mesi, il partito in crisi di nervi a Bologna (pure le antiche roccaforti traballano), la palude di Milano, dalla quale si spera di uscire confidando nel manager Giuseppe Sala, legato a Letizia Moratti che lo volle con sé a palazzo Marino, non certo il prototipo del candidato democrat per eccellenza. Il nuovo partito renziano sbeffeggiato dal Bassolino napoletano, esponente di punta di quel "partito dei sindaci" che nel 1993 si fece forte del rapporto diretto con il cittadino-elettore, e che oggi spiega di volersi nuovamente sacrificare perché all’ombra del Vesuvio la rottamazione generazionale non ha plasmato candidati all’altezza della sfida.
E allora il centrodestra riparta dal modello Brugnaro, vincente tra l’elettorato lagunare perché capace di coniugare la buona politica con l’impegno civico, dall’esperienza di Alfio Marchini, maturata sul campo e messa al servizio di una città che partiti voraci non hanno saputo rispettare. Si riprenda il filo del discorso iniziato alle ultime regionali, quando la politica, prima di rinchiudersi nuovamente nel Palazzo, aveva saputo cucire il tessuto dei rapporti con le articolazioni civiche in Emilia Romagna, in Umbria, in Puglia, raggiungendo traguardi importanti e la doppia cifra in termini di consenso elettorale.
La classe dirigente del futuro va stimolata, coinvolta e valorizzata lì dove affonda le radici, nella dimensione territoriale. Quale migliore risposta all’antipolitica dilagante?