Dal diritto mite al pensiero ridotto

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Dal diritto mite al pensiero ridotto

10 Ottobre 2005

L’abitudine di comporre una caricatura dell’avversario e poi prendersi gioco dei suoi difetti è molto diffusa nel giornalismo “alto”, tra gli intellettuali sopraccigliosi e nei salotti con tanti libri alle pareti.

Sulla Repubblica di mercoledì scorso Gustavo Zagrebelsky si è prodotto in un esempio sommo di questo modo di condurre le polemiche, politiche o culturali che siano.

L’illustre giurista si è scelto con cura l’obiettivo da sfregiare: tutti quelli che con una certa degnazione chiama “atei devoti” o “teocon”. A loro Zagrebelsky attribuisce una congerie di tesi e convinzioni che solo alla lontana somigliano a quelle effettivamente sostenute, poi si diverte a farle a pezzi. La cosa insolita è che i suoi argomenti sono così deboli e disordinati che persino il confronto con tesi pretestuose spesso lo manda al tappeto.

Zagrebelsky accusa i suoi avversari di tre “riduzioni”. La prima sarebbe quella di ridurre l’identità a storia, errore che il giurista equipara ad una “seduzione tribale”. Chi evoca il valore dell’identità, per Zagrebelsky, lo fa in modo acritico e prendendo in blocco tutto ciò che si è stati. Mentre, suggerisce l’autore, l’identità è frutto di una selezione.

Per cominciare, nessuno tra coloro che hanno seriamente trattato questi temi, a quanto ci risulta, ha mai evocato questa prima “riduzione”. Quello che piuttosto vale tenere in conto è che ogni selezione, ogni accumulo di esperienze ha un punto di origine, una radice. Sono dunque le nostre radici che danno il via a ciò che noi siamo, e il percorso che seleziona il meglio della nostra storia si chiama tradizione. Dire che le nostre radici affondano nel Cristianesimo non nega in alcun modo il fatto ovvio che lungo il precorso successivo abbiamo incontrato il Rinascimento o l’Illuminismo.

A Zagrebelsky non basta. Egli ritiene che, comunque, un’idea di identità così concepita porta alla sottomissione o all’eliminazione dell’altro ed è per questo, in sostanza, razzista.

Torna anche qui tutto l’armamentario retorico attorno al “dialogo”, all'”accoglienza dell’altro”, all'”ecumenismo”, che tanto spazio ha sulla stampa “per bene” e che viene usato come una mazza ferrata, per l’appunto, contro gli “altri” che non la pensano allo stesso modo. Un bel paradosso davvero. Nessuno ha però sinora obiettato sul fatto molto semplice che ogni dialogo ha bisogno di due interlocutori, e che per accogliere gli altri bisogna essere qualcuno. Non c’è ombra di sopraffazione in questa tesi, solo l’idea che le nostre radici e la nostra tradizione possono aiutarci nel difficile compito di capire e farci capire. Gran parte della più recente riflessione di Joseph Ratzinger, cardinale e Papa, verte proprio sull’equilibrio possibile tra razionalità e tradizione. L’una e l’altra debbono insieme sostenersi e non si può chiedere alla sola razionalità – come fa Zagreblesky – di inverarsi nel puro contingente. Ma se a Zagreblesky fa fatica leggere il pensiero limpido del pontefice, consideri per lo meno questa citazione di Gaetano Salvemini che difficilmente si può accusare di essere antesignano dei teo-con, degli atei devoti oppure soltanto di nutrire un pregiudizio anti-illuministico.

«Rispettare il principio giuridico della tolleranza non significa cedere di fronte a coloro che pensano diversamente da noi né esser pronti a cambiare le nostre opinioni come banderuole al vento. […] Ci si dice spesso che noi dobbiamo “comprendere” il nostro avversario. Senza dubbio lo dobbiamo, ma questo allo scopo di sapere il modo pi