Dal jihad alla “dhimmitudine”, così l’Occidente si è arreso all’Islam

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Dal jihad alla “dhimmitudine”, così l’Occidente si è arreso all’Islam

Dal jihad alla “dhimmitudine”, così l’Occidente si è arreso all’Islam

22 Ottobre 2009

La dhimmitudine è un evento storico, politico, sociale e geografico. La sua collocazione spaziale, benché mobile, è delimitata da contorni e frontiere assai precisi. È un fenomeno storico vivente, con i suoi periodi di espansione e di arretramento. Numerosi popoli ne sono stati toccati, e milioni di individui hanno subito le sue restrizioni. Essa appartiene alla storia generale dell’umanità, e tuttavia è determinata da peculiari caratteristiche che ne fanno una categoria a sé. La sua durata, che varia a seconda dei luoghi, va da alcuni secoli a più di un millennio.

La dhimmitudine è un sistema evolutivo e non statico, chiamato dalla sua stessa dinamica a svilupparsi senza sosta. Di conseguenza non può essere racchiusa entro formule quali «minoranze religiose protette», «sistema islamico basato sulla tolleranza» o «cittadini di seconda classe». La dhimmitudine – attraverso i suoi tipici strumenti, il jihād e la sharī‘a – è stata un motore decisivo della storia umana. A partire dal suo originario nucleo di espansione, l’Arabia, ha dato luogo a continue guerre in più continenti. Ha provocato ribellioni a non finire e ripetuti interventi armati dei paesi europei e della Russia; nel XIX secolo, poi, ha letteralmente dominato la politica degli Stati occidentali, divisi tra la sua abolizione o la sua conservazione nell’area balcanica.

La dhimmitudine ha inghiottito nella morte infiniti popoli e brillanti civiltà. Ha plasmato e distrutto innumerevoli generazioni, ha condizionato intere mentalità. Ancor oggi essa mobilita forze politiche e militari di livello planetario. La dhimmitudine costituisce un campo di indagine e di confronto per équipe pluridisciplinari di specialisti: infatti richiede un approccio multidimensionale, che tenga conto delle interazioni tra molteplici fattori.

Non è un periodo storico in cui si possano distinguere da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, poiché, come in ogni epopea umana, tutto si mescola e si intreccia nell’arco del tempo. Di questa miscela di secoli e genti non restano che pallidi riflessi ed echi estinti. Questo saggio non intende né confermare né smentire il concetto di tolleranza islamica. Esso infatti non si colloca sul piano dei giudizi di valore: si limita a suggerire dei temi di riflessione e a formulare, a titolo di conclusione, alcune domande.

Quali sono le popolazioni oggetto della dhimmitudine? Perché essa ha inghiottito interi popoli, mentre altri sono riusciti a sottrarvisi? Quali sono le forze che secolo dopo secolo, ondata dopo ondata, modellandosi su un disegno iniziale, su un progetto politico a lungo termine, la preparano e la impongono? E, d’altro canto, quali sono le cause patogene che, all’interno della cultura presa di mira, concorrono e cooperano alla sua autodistruzione?

Ambizioni personali, tradimenti, lotte intestine, o un inconscio desiderio di morte insito in queste società materialiste e raffinate, impotenti e incapaci di lottare per sopravvivere? La dhimmitudine infatti – è bene sottolinearlo – è tanto la storia di un’oppressione quanto quella di una collaborazione. Probabilmente essa non sarebbe stata possibile senza questa cooperazione, fondata su regole e obiettivi ben precisi, tra una minoranza militarizzata di conquistatori e alcune maggioranze pacifiche e altamente civilizzate, che delegarono agli eserciti stranieri la difesa del loro patrimonio e delle loro ricchezze.

Ciò determinò da un lato il trasferimento di beni dai popoli ricchi a quelli poveri, dall’altro la nascita di nuove civiltà sulle ceneri delle vecchie. Questo progetto di islamizzazione di enormi territori e miriadi di popoli (dalla Russia al Sudan, dal Maghreb all’Indo), che avrebbe potuto fallire – e spesso la storia sembra effettivamente esitare – deve il suo successo tanto all’ardore impetuoso dei combattenti islamici e all’acume dei suoi politici quanto alla venalità, ai tradimenti, all’attiva collaborazione dei leader dhimmī e dei rinnegati ambiziosi.

Mentre la umma unificava in funzione di un comune obiettivo il suo enorme potenziale militare, demografico, giuridico e finanziario, i notabili dhimmī, divisi dal settarismo religioso e dal pragmatismo economico, si preoccupavano di arricchirsi prima sotto il dominio arabo e poi sotto quello turco. In effetti, sarebbe facile presentare questa storia come un percorso di codardia, di cecità, di pusillanimità. Eppure, la dhimmitudine ha in serbo anche un’altra verità.

Quella di popoli che, una volta assimilate l’eredità ellenistica e la spiritualità biblica, diffusero la civiltà ebraico-cristiana ovunque, fino all’Europa e alla Russia. Di ebrei, cristiani e zoroastriani che, sopraffatti da bande di nomadi, seppero insegnare ai loro oppressori, con la pazienza dei secoli, le sottili arti del governo degli imperi – dalla necessità di un ordine fondato sulla legge alle tecniche per gestire le finanze e amministrare le città e le campagne, nonché alle regole della fiscalità in luogo di quelle del saccheggio – e poi ancora la filosofia, le scienze, le lettere e le arti, l’organizzazione e la trasmissione del sapere: insomma, i rudimenti e le basi della civiltà.

Erano dhimmī i contadini che seminavano, piantavano e coltivavano, quelli che scavavano i solchi, mietevano e lavoravano i campi, quelli che curavano i frutteti e il bestiame, come pure gli apicultori e i vignaioli, i fattori e i braccianti. E, spostandoci nelle città, erano ancora dhimmī gli artigiani che lavoravano, forgiavano, tessevano e modellavano gli oggetti, i vetrai, i navigatori e i commercianti, così come gli urbanisti che ideavano le città, gli architetti che progettavano le moschee e i palazzi islamici, i muratori che le costruivano e coloro che si occupavano della manutenzione di ponti e acquedotti.

In qualità di artisti, essi crearono, perfezionarono e misero generosamente a disposizione dell’«arte islamica» un talento che aveva animato l’architettura, la scultura, l’arte musiva e l’infinita gamma di arti minori di una civiltà mediterranea preislamica che ancora adesso ci stupisce. In veste di letterati, sapienti, poeti, filosofi e storici, essi coltivarono assiduamente il sapere tramandato nei secoli. Infine, come traduttori e copisti, trascrissero queste summae di conoscenza per darle in pasto ai loro rozzi conquistatori.

Decimati dalle razzie nelle campagne, essi si rifugiarono nelle città, che svilupparono e abbellirono. E, sebbene marchiati dall’obbrobrio, furono ancora loro a essere trascinati da una regione all’altra dai conquistatori per ridare vita a zone desertificate e rianimare città distrutte. Ancora una volta i dhimmī costruirono e lavorarono. E ancora una volta furono scacciati, depredati e taglieggiati. Ma nella misura in cui essi sparivano, svuotati del loro sangue e perfino della loro anima, era la civiltà stessa a scomparire, mentre le terre che un tempo, quando le occupavano loro, erano state luoghi di civiltà, di raccolti e di prosperità, entravano in una lenta fase di decadenza e di barbarie.

Le élite che fuggirono in Europa portarono con sé il proprio bagaglio culturale, la propria erudizione e la propria conoscenza dell’Antichità classica. Fu allora che nei paesi cristiani in cui si erano rifugiati – Spagna, Sicilia, Provenza, Italia – sorsero centri culturali in cui gli ebrei e i cristiani in fuga dall’islām poterono trasmettere alla giovane Europa il sapere dell’antico Oriente preislamico, tradotto a suo tempo in arabo dai loro antenati. Stanziati a cavallo delle due sponde del Mediterraneo, e in qualità di intermediari tra due civiltà, essi assicurarono i commerci, gli scambi, la circolazione di beni e idee e il trasferimento delle tecnologie, arricchendo se stessi e gli altri con la loro ingegnosità.

Poi, quando nel XIX secolo l’Europa sollevò la cappa di obbrobrio che li opprimeva, eccoli di nuovo pronti a cogliere le sfide della modernità: dalla ferrovia al telegrafo, dalla stampa al giornalismo, dai trasporti alle industrie e alle banche. Ovunque essi furono promotori e lievito di civiltà ed evoluzione, e, indossati ancora una volta i panni di infaticabili artefici del progresso e costruttori di civiltà, introdussero in tutto l’Impero islamico, dalla Persia al Maghreb, le infrastrutture della modernità.

Infine, dopo essere stati scacciati, depredati e decimati per l’ennesima volta, essi fuggirono in America, in Europa o in Israele, dove oggi gli armeni, i maroniti, i siriaci, i caldei, i copti e gli ebrei vivono non della carità internazionale, ma del loro lavoro. Di questi popoli, dalla Turchia all’Iran ai paesi arabi, sopravvivono ormai solo sparute minoranze, ultime vestigia delle moltitudini di cristiani e di ebrei che un tempo popolavano queste terre. Soltanto i cimiteri e le rovine evocano il loro passato. I loro diritti storici, politici e culturali si dissolvono nel grande oblio del tempo, e nella loro storia usurpata si svela il senso profondo della dhimmitudine: la scomparsa nella non esistenza e nel nulla.

Per questo è con un sostanziale omaggio che questo studio vorrebbe concludersi. Certo, con il passare dei secoli e il graduale affiorare della verità storica, emergono sempre più le infinite varietà dei caratteri umani – servili, corrotti, codardi, pusillanimi e presuntuosi, ma anche eruditi, laboriosi, eroici – di questi reietti della storia. Ma tutti questi aspetti si confondono e si mescolano sui loro volti pieni di sangue e lacrime, pieni di interrogativi e di saggezza, scolpiti in un millenario magma umano a cui lo storico può solo accostarsi con rispetto, e senza alcun giudizio.

Tratto da Bat Ye’Or, Il declino della Cristianità sotto l’Islam. Dal Jihad alla dhimmitudine, Lindau 2009. Tutti i diritti riservati.