Dal libro di Geiger affiora il confronto universale con vecchiaia e famiglia
25 Giugno 2012
di Vito Punzi
Con questo libro (Il vecchio re nel suo esilio, trad. di Giovanna Agabio, Bompiani p. 165, € 16,00) Arno Geiger ha scritto molto più che un ritratto di suo padre August (classe 1926). In effetti è più facile dire ciò che esso non è: non un libro sulla demenza, non una saga familiare, e, soprattutto e a differenza di altri scritti da figli sui padri, non una resa dei conti. Si tratta piuttosto di un confronto di valore universale con la vecchiaia e la malattia, con la casa-patria e con la famiglia. Si tratta di un libro nel quale ogni parola è al suo posto, ogni frase risulta soppesata: non ha sbagliato chi ha definito questo testo un esercizio d’ascesi.
Tanto per provare un confronto: alcuni anni fa è stato Tilman Jens a scrivere del padre Walter, famoso professore di retorica, e della sua demenza. Ma quello era un libro accusatorio, un’opportunità di rivolta offerta ad un figlio amareggiato per la tarda confessione paterna di adesione al Nazionalsocialismo. Quello di Geiger è invece uno sguardo rivolto insieme all’altro, il padre con l’Alzheimer, e a se stesso, al figlio, e agli altri familiari, stretti nelle difficoltà della convivenza con il malato. Senza lamentele, senza piagnistei, nella piena coscienza della sofferenza e dell’assenza di una via d’uscita dalla demenza. Ed è anche in virtù di questo che la narrazione risulta riuscita. Geiger ha capito bene che avrebbe potuto raccontare il padre solo condividendone in tutto e per tutto la condizione, senza sconti: “E ho anche imparato”, scrive l’austriaco, “che per la vita di una persona affetta da demenza occorre usare criteri nuovi. […] Per lui non c’è che il mondo della demenza”.
Geiger non nasconde nulla, tanto meno l’inadeguatezza sua e dei propri cari nel comprendere l’avanzare della malattia in August. Quella “tesseva la propria rete intorno a lui, lentamente, senza dare nell’occhio. Nostro padre vi era già imprigionato, e noi non ce ne accorgevamo”. E non viene taciuta neppure la prima, dura reazione del figlio: “Oltre al cervello di nostro padre, la malattia divorava anche l’immagine che mi ero fatto di lui da bambino. Per tutta l’infanzia ero stato fiero di essere stato suo figlio. Adesso mi sembrava sempre più un deficiente”. Dal momento in cui viene compreso lo stato reale delle cose, cioè la demenza di August, la storia narrata da Geiger prende tutt’altra piega: inizia un percorso a ritroso nella vita del padre, per narrarne particolari ed eventi da trasformare in “storia”. Ma la malattia non fa sconti, tanto più che la demenza ha come propria caratteristica l’imprevedibilità. La convivenza col padre lascia sempre meno spazio al passato e lancia piuttosto sempre nuove sfide. Nella pur costante incertezza circa il comportamento di August, almeno un tratto risulta ripetitivo, in qualche modo ossessivo e apparentemente irrisolvibile: la nostalgia di casa. Una nostalgia che è segno primo e drammatico della demenza, perché il padre, evidentemente senza che lui ne abbia più coscienza, viene ospitato ed accudito nella propria casa.
Da scrittore qual è, il tratto del padre demente che più incuriosisce Arno Geiger è quello che ne rivela un’insospettabile e stupefacente creatività linguistica: “Pronunciava le parole in modo che l’assonanza non si potesse ignorare. Recuperava vecchi proverbi che non sentivo da tempo”. Una volta accolta per quello che è (una sfida continua) la malattia inizia a produrre nel padre August nuove capacità: “Il suo modo di parlare subì un cambiamento, e all’improvviso rivelò un’eleganza spontanea che non avevo mai notato. Alla fine, anche riguardo ai contenuti, approdò a una logica personale così sorprendente che in un primo momento non sapevamo se ridere, stupirci o piangere.” Così il racconto si fa sempre più ricco, oltre che di dolore per il progredire della malattia, anche di situazioni inattese, apparentemente illogiche, e perfino di involontaria comicità: “Papà, tu sai chi sono?”, chiede Arno al padre, “la domanda lo mise in imbarazzo, si voltò verso Katharina e disse scherzoso, agitando la mano verso di me: ‘Come se fosse così interessante”.