Dal vertice Berlusconi-Sarkò esce un compromesso senza vincitori né vinti

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Dal vertice Berlusconi-Sarkò esce un compromesso senza vincitori né vinti

26 Aprile 2011

Un compromesso accettabile. E come accade in tutti i compromessi, i sottoscrittori cercano di portare a casa il risultato migliore, o almeno quello possibile nella bilancia del gioco al ribasso e al rialzo. Così è stato per Berlusconi e Sarkozy al termine del ventinovesimo vertice italo-francese. Dimostrazione pratica, se mai ce ne fosse stato bisogno, che quando manca l’Europa i singoli paesi cercano di tutelare i propri interessi e la mediazione tra le parti resta l’unica via. Tra i tanti vertici, quello di ieri è stato forse il più delicato, il più complicato, per la distanza delle posizioni dalle quali si partiva e per il risultato raggiunto su dossier strategici: immigrazione, intervento militare in Libia, economia. Con una ‘coda’, tutta italiana, sul nucleare.

Se le opposizioni bollano il faccia a faccia come una ‘Caporetto’ per il governo italiano, il centrodestra lo valuta positivamente, anche se nella maggioranza la Lega prende la via del ‘no non ci sto’. Le parole di Bossi a corredo del vertice lasciano poco spazio alle interpretazioni su Libia e questione Parmalat (ma il riferimento va anche a Edison e Bulgari). “Siamo diventati una colonia francese” e questo avrà “conseguenze gravissime” come l’esodo massiccio di immigrati dall’area del Nord-Africa, tuona il Senatur dalle colonne della Padania.

Ora, se è vero che nella tattica e nei toni leghisti molto pesa la propaganda elettorale calibrata sulle amministrative (al Nord i sondaggi preoccupano le camicie verdi) e la reprimenda sul giornale di partito serve a parlare alla pancia del popolo padano, è altrettanto vero che l’impuntatura della Lega è una nuova matassa da sciogliere per il Cav. che poche ore prima delle esternazioni di Bossi aveva detto che con lui “è tutto a posto”. La quadra la dovrà trovare oggi nel vertice fissato apposta con lo stato maggiore del Carroccio. Tuttavia qualche perplessità c’è pure nel Pdl come hanno fatto intendere Giovanardi e Mantovano.

Le divisioni non mancano neppure nel campo delle opposizioni con Di Pietro che annuncia una mozione contro l’intervento in Libia contestando perfino le parole di Napolitano e la Finocchiaro che considera ‘inaccettabile’ la posizione dell’Idv, confermando che il Pd è favorevole all’intervento e calibrando l’ipotesi di una mozione sulla verifica di una maggioranza parlamentare dopo le esternazioni di Bossi. Il punto è anche quello di un nuovo passaggio alle Camere che nel centrodestra viene escluso come ha dichiarato Berlusconi e tra gli altri, il ministro Frattini (poichè la decisione del governo rientra nei parametri di quanto il Parlamento ha già votato) che oggi insieme a La Russa riferirà alle commissioni Esteri di Camera e Senato riunite in seduta congiunta. Ma se anche si dovesse tornare in Parlamento, il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello è netto quando dice che con la Lega “ragioneremo e arriveremo ad una mozione unitaria se ci sarà un momento parlamentare sulla questione libica”.

Torniamo al summit Italia-Francia. La bilancia della mediazione coi cugini d’Oltralpe segnala un dato: come sempre accade nelle mediazioni, non ci sono né vinti né vincitori. In politica estera, la partecipazione dell’Italia a raid aerei mirati su obiettivi militari libici è la naturale evoluzione di condizioni che un mese fa non c’erano e che, proprio per questo, inizialmente avevano fatto assumere al governo italiano una posizione più prudente rispetto all’interventismo francese. Va da sé che in questa guerra la Francia puntava a un obiettivo fondamentale: sottrarre al nostro paese il ruolo (politico ed economico) conquistato nell’area del Mediterraneo e intestarsi una nuova leadership nel momento in cui la Germania è molto più interessata all’area dei Balcani per questioni geo-politiche ed economiche che ai destini del popolo libico.

Certo, Palazzo Chigi ha rotto gli indugi iniziali derivati anche dal fatto che con Gheddafi erano stati siglati accordi che fino a febbraio hanno funzionato (vedi immigrazione clandestina) e dal fatto che la Libia è stata una colonia italiana. Ma a cambiare le carte in tavola sono state le vittime civili lasciate dal Colonnello sul suolo libico e l’appello del Comitato nazionale di Transizione venuto a Roma a chiedere un aiuto più concreto per rovesciare il regime e avviare il paese alla democratizzazione. Esattamente quello che le opposizioni hanno sempre sbandierato come priorità imputando a Berlusconi una posizione troppo soft. Ora che l’Italia ha assunto un profilo più interventista, che tra l’altro rispetta alla lettera il mandato Onu alla Nato, si grida strumentalmente allo scandalo solo perché va bene tutto e il contrario di tutto pur di dare la spallata al Cav.

Ma se si guarda in controluce, l’accordo con la Francia nell’immediato consentirà all’Italia di ottenere molto di più di quanto sia stato possibile finora (compreso il tentativo di mediazione con i gheddafiani sperimentato in un primo momento per indurre il Rais ad andarsene). Perché alla fine delle operazioni militari il nostro Paese si siederà a pieno titolo e al pari degli altri stati dell’alleanza, al tavolo della nuova Libia. Il che significa anche garanzie maggiori non solo sul mantenimento ma soprattutto sul consolidamento dei rapporti economici, a cominciare dal gas e dal petrolio. In questa direzione va l’appello lanciato da Berlusconi e Sarkozy agli altri stati, di bloccare l’acquisto di greggio direttamente riconducibile a Gheddafi e i suoi uomini. Nella stessa direzione si è mosso Scaroni nel suo recente viaggio a Bengasi.

Immigrazione.  L’Italia tiene il punto su Scenghen, in cambio ottiene una posizione più aperta da parte della Francia che è bene ricordare, non più tardi di quindici giorni fa bloccava le frontiere di Ventimiglia respingendo gli immigrati tunisini in possesso del permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari rilasciato dall’Italia, arrivando perfino a cercare una sponda europea per metterne in discussione la validità.

Oggi cosa è cambiato? Intanto, senza dirlo, la Francia non chiude più le sue frontiere e ogni giorno i tunisini oltrepassano i confini a bordo dei treni. Sarkozy incassa il via libera italiano alla revisione del trattato di Scenghen puntando su norme più restrittive per la libera circolazione degli immigrati nell’area nel tentativo di ottenere dalla Ue la possibilità di agire sulle frontiere di fronte a esodi massicci di immigrati, cioè in situazioni particolari. In realtà buona parte della tattica francese deriva da motivi politici interni coi quali Sarkozy è costretto a fare i conti e cioè l’avanzata della destra di Marie Le Pen che spinge sul tasto dell’immigrazione.

Ma anche qui bisognerà vedere come questa revisione verrà messa nero su bianco e comunque per mettere mano al trattato non basteranno pochi giorni (la commissione Ue si riunirà il 4 maggio per iniziare ad affrontare la questione e ieri Barroso ha sostanzialmente accolto il documento italo-francese). Nel frattempo, i tunisini che dall’Italia vogliono andare in Francia per ricongiungersi ai familiari potranno continuare a farlo senza essere rispediti al mittente. Non solo: nel documento congiunto si insiste molto sul rafforzamento di Frontex (l’agenzia preposta al controllo dei confini europei, con interventi di pattugliamento delle coste per fronteggiare gli sbarchi) e si chiede all’Europa lo stanziamento di risorse ad hoc per impedire le partenze dall’area nord-africana oltre a progetti di cooperazione per contribuire allo sviluppo di quei paesi.     

Economia. L’Italia ottiene il via libera della Francia sulla candidatura di Mario Draghi (governatore della Banca d’Italia) alla guida della Bce, dopo il disco verde arrivato dalla Germania. Certo, Draghi non ricoprirà quel ruolo in quanto italiano, ma non c’è dubbio che la sua nomina ai vertici della ‘cassaforte’ europea è un risultato che deriva anche dal sostegno determinato portato avanti in tutti questi mesi dal governo in sede europea.

Quanto al dossier Parmalat, l’Opa lanciata da Lactalis su tutte le azioni segnala due cose. La prima: l’economia deve tenere conto delle regole del mercato. Nel caso specifico, si tratta di due gruppi privati. E chi ha una visione liberale del mercato  non può non considerare che il colosso francese in mano alla famiglia Besnier ha messo i soldi (e tanti) per inglobare Parmalat in quello che potrebbe diventare il primo gruppo al mondo nel settore lattiero-caseario. Non c’è dubbio che la mossa dei proprietari di Lactalis abbia destato non pochi imbarazzi nella delegazione di Sarkozy che ieri mattina è arrivata a Villa Madama con la notizia dell’Opa totale lanciata su Parmalat. Imbarazzi evidenti soprattutto per il ministro dell’economia francese davanti a Tremonti.

Ma è altrettanto vero che dal punto di partenza, nell’arco di poche ore siamo arrivati al fatto che Sarkozy e Berlusconi si impegneranno a sollecitare sinergie affinchè vi sia una testa italo-francese alla guida del gruppo e affinché si creino sinergie per la costituzione di cordate italo-francesi in grado di competere su scala internazionale. Se questo accadrà, per le imprese italiane potrebbe essere un’opportunità di crescita anche nel contesto internazionale dove finora la grande imprenditoria non ha saputo imporsi al pari degli omologhi europei e non solo. C’è poi l’impegno a sostenere e favorire di più  le piccole e medie imprese italiane nella penetrazione del mercato francese. In sostanza, dal vertice romano, si sono gettate le basi per una integrazione strutturale tra pmi e grandi gruppi industriali.

E che su Parmalat lo stesso Sarkozy abbia dichiarato che “’Parmalat e Lactalis sono due gruppi privati” ma nonostante ciò “siamo condannati a trovare una soluzione”, dimostra come l’impegno dei due governi sia quello di sollecitare una mediazione. Non a caso Francia e Italia metteranno a disposizione due advisor (consiglieri economici) proprio per avvicinare le parti. Lo strumento va individuato ma c’è chi non esclude la via di una joint-venture italo-francese.

La seconda questione evidenzia come la linea ‘protezionistica’ di Tremonti supportata dalla Lega (con il decreto per impedire la scalata di Lactalis)  alla fine non si sia rivelata vincente dal momento che la possibilità di mettere insieme una cordata di imprenditori italiani per contrastare le mire dei francesi su Collecchio (col coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti e di Intesa San Paolo), finora non abbia dato i risultati sperati. L’altra cosa che da tutta questa vicenda emerge è una sorta di debolezza dell’imprenditoria italiana a fronte di interessi stranieri che si concentrano sulle aziende di casa nostra. E questo nonostante i proclami dei grandi capitani d’industria nostrani che spesso si leggono sui giornali o si seguono nei talk televisivi.   

Infine la questione nucleare riemersa a margine del vertice, dopo la decisione del governo di abrogare la legge per la costruzione degli impianti. Si può discutere sull’opportunità o la tempistica delle dichiarazioni del premier sul fatto che la decisione dello stop è nata sulla scorta dei timori dell’opinione pubblica dopo il disastro in Giappone e che, in fondo, serve anche a evitare lo scoglio referendario che, evidentemente, se passasse bloccherebbe qualsiasi possibilità di riaprire il dossier nucleare per i prossimi anni.

Ma la sostanza del ragionamento è un’altra e va oltre le strumentalizzazioni delle opposizioni, vecchie e nuove (vedi il terzo polo che sul tema ha tre posizioni diverse tra Rutelli, Fini e Casini): il governo ha deciso di fermare la legge scegliendo in questo momento di tenere conto dei timori dell’opinione pubblica e preferendo concentrarsi sul dibattito relativo alla sicurezza. Ciò non toglie che una volta portato a termine il confronto – e i tempi non saranno di certo brevi – non si possa valutare se riaprire il dossier oppure no. E’ un’opzione che evindentemente il governo intende lasciarsi ancora aperta visto che quello del nucleare è un tema che sta dentro il programma elettorale col quale Berlusconi e il centrodestra hanno vinto le elezioni due anni fa. E se anche si pensasse di riproporlo in futuro, questo significherebbe mettere mano a una nuova legge con, anche qui, tempi tutt’altro che brevi.

Francamente dove stia la ‘truffa’ come la chiamano Di Pietro, Bocchino e Casini, è difficile comprenderlo se non nell’ottica del solito antiberlusconismo viscerale. Perché? E’ presto detto: l’opposizione invece che gridare allo scandalo dovrebbe gioire per una battaglia vinta, dal momento che prima il governo, poi il Parlamento (sulla centralità del quale tutti nel centrosinistta si riempiono la bocca) ha cancellato una legge da loro osteggiata, privilegiando in questa fase una riflessione più profonda su un tema così delicato. In pratica è come se il governo avesse dato ragione ai referendari.

Ora, di fronte a un dato oggettivo – cioè una legge che non c’è più – come si può continuare a sostenere le ragioni di un referendum rispetto al quale viene a cadere l’elemento cardine? La risposta è sempre la stessa: dare la spallata al Cav. invocando la ‘truffa’ e il fatto che così la maggioranza vuole evitare il quesito sul legittimo impedimento che peraltro, dopo le modifiche subite in parlamento, porta con sé ben poco rispetto ai contenuti iniziali.

La realtà è che chi si straccia le vesti per difendere un referendum che di per sé non ha più ragion d’essere perché gli italiani sarebbero chiamati a pronunciarsi sugli articoli di una legge che non esiste più, vorrebbe ‘giocare’ sui timori dell’opinione pubblica per quanto accaduto in Giappone per portare il ‘popolo bue spaventato’ alle urne e farlo votare contro il legittimo impedimento. Ma la tattica, anche in politica, talvolta può rivelarsi un boomerang.