Dal voto di domenica un’agenda per il Governo
02 Giugno 2015
Il risultato delle ultime elezioni amministrative regionali si può analizzare in vario modo. Ogni commentatore può, accentuando un aspetto o un altro, ricavare indicazioni favorevoli alla tesi che vuole sostenere. Pertanto ci asterremo da ogni considerazione particolare, limitandoci a una semplice constatazione di fatto.
Il voto di domenica scorsa non solo non prefigura quello che sarà il risultato delle prossime elezioni politiche ma non offre neanche elementi di giudizio sufficienti per capire gli orientamenti futuri. Anzitutto perché a quella data manca ancora un tempo lungo (tre anni alla scadenza naturale della legislatura) e tante cose possono accadere. Ma anche e soprattutto perché quello di domenica è un voto parziale, che non riguarda l’intero territorio nazionale; ed è un voto locale, risente cioè di preoccupazioni legate a un’arena politica limitata. Lo stesso elettorato chiamato a scegliere rispetto a una diversa arena farebbe scelte diverse.
Tutto ciò premesso, è però possibile ricavare un’indicazione politica generale dal voto del 31 maggio. Il risultato elettorale conferma una diffusa insoddisfazione per la politica che si è espressa in due modi diversi. Anzitutto con una forte astensione, in secondo luogo con il voto dato a forze politiche che sono catalizzatori della protesta. Quest’ultima considerazione vale tanto per il consenso raccolto dalla Lega che per quello che si è indirizzato al Movimento 5 Stelle.
Queste formazioni politiche, per quanto apparentemente diverse, sono accomunate da una identica caratteristica: non esprimono nessuna cultura di governo ma sono interessate a raccattare voti a qualunque costo. Il partito di Salvini non si perita di sostenere le rivendicazioni più contraddittorie. Chiede, per esempio, la diminuzione delle tasse e contemporaneamente il rimborso integrale dell’indicizzazione delle pensioni. I pentastellati, dal canto loro, cercano di svincolarsi dalla leadership storica di Grillo, presentandosi come espressione della società civile, ma mantengono intatti i punti fermi della loro "proposta politica": giustizialismo in politica interna e filo islamismo in politica estera.
Contrastare questa deriva non è semplice. Il successo di formazioni populiste o impolitiche è una tendenza europea e non solo italiana. Semmai nel nostro paese ad accentuare questo fenomeno contribuisce un diffuso analfabetismo politico. Tuttavia, pur in presenza di questi elementi strutturali, qualcosa, e forse più di qualcosa, è possibile fare per contrastarli in tempi non storici.
La deriva demagogico-populista è in buona parte il sottoprodotto di una crisi economica di lunga durata che non è ancora pienamente superata. Su questo occorre ripensare l’agenda del governo. I timidi segnali di ripresa che si registrano sono più il frutto di fattori esterni (il QE di Draghi, il ribasso del costo del petrolio) che di un’azione incisiva dell’esecutivo. Qui, se qualcosa è stato fatto (in sostanza il cosiddetto jobs act), c’è ancora tanto da fare.
Occorre aumentare la concorrenza in tutti settori a partire da quelli dove essa è più carente, anzitutto i servizi pubblici locali (le municipalizzate). Bisogna riprendere e concretizzare con decisione la revisione della spesa, con interventi costanti e continui che vadano a colpire i corporativismi e le sacche di spreco che si annidano nei bilanci statali e, ancor più, in quelli degli enti locali. A loro volta questi interventi debbono servire a una riduzione mirata della pressione fiscale.
Se, con un’azione decisa, si riesce a incoraggiare la timida ripresa economica che si intravede, rendendola più robusta, si riuscirebbe anche a svuotare, o a depotenziare in modo significativo, il voto di protesta. A questo compito (pur nella divisione dei ruoli) sono chiamate le forze che compongono la maggioranza di governo. Hic Rhodus hic salta.