D’Alema e la scoperta del tramonto
25 Maggio 2007
di Enzo Sara
D’Alema vede un futuro a tinte fosche. E probabilmente non è un caso. Il
suo irriducibile compagno-rivale-nemico, il suo Walter ego Veltroni, ha fatto
recentemente la “scoperta dell’alba” ed ha intitolato così l’ultimo
libro. E’ normale e forse perfino automatico, quindi, che D’Alema faccia ora la
scoperta del tramonto. Il tramonto di tutta la politica, di un intero sistema e
di una classe dirigente in blocco: è un pericolo concreto, giura il leader di
Gallipoli. Gli si è oscurato il sole dell’avvenire, non scorge più nulla di
buono all’orizzonte e lancia l’allarme su una possibile crisi di
“rigetto” da parte della gente (assimilabile –Â ipse dixit
–Â alle vicende del 1992).
Nel merito, a me sembra che ci sia
poco da aggiungere a quanto è stato già da più parti obiettato. La sortita
dalemiana assomiglia chiaramente ad uno smaccato e anche un po’
maldestro tentativo di lavare i panni sporchi all’esterno della “famiglia”
di centrosinistra, cercando di indurci a considerare come un fenomeno
generalizzato e trasversale la situazione di paralisi, impotenza e naufragio in
cui versa l’attuale maggioranza di governo. Il riferimento al ’92, comunque, mi
sembra almeno improprio: in quella circostanza furono le procure a bollare come
corrotto il sistema politico e a determinarne il tracollo. Ma vale la pena di
ricordare che quel “Big bang” produsse anche effetti
positivi: lo sdoganamento della destra democratica e l’abbandono, da parte di
una fetta di sinistra, dei perniciosi miti del socialismo reale (crollati sotto
le macerie del muro di Berlino); la nascita del bipolarismo e l’inizio di
governi – o almeno di maggioranze – durati per l’intero periodo della
legislatura. Ora, invece, siamo in presenza di una “semplice”
incapacità e inerzia della classe di governo. E i rimedi sono tutti
all’interno del sistema democratico: la sostituzione o il ricambio per via
elettorale. In vista, dunque, non c’è nessuna apocalisse.
Ma, più che la predica, credo che
vada stigmatizzato il pulpito. Come può D’Alema impancarsi a solone e censore
dopo le vicende che lo hanno visto protagonista nei mesi scorsi?
Come possiamo prendere lezioni e accettare pistolotti moralistici da
quello che io definisco – tra il serio e il faceto – un “ministro di
minoranza”? Riflettiamoci: non è solo un paradosso o una provocazione. Gli
osservatori più attenti e i commentatori più coraggiosi, infatti, non possono
(e non devono) far finta di dimenticare che la relazione del ministro D’Alema,
contenente gli indirizzi di politica estera, non fu approvata dal Senato.
Certo, poi il governo Prodi ha riottenuto la fiducia e quindi – almeno
formalmente – è stata messa una toppa a quel flop clamoroso e senza precedenti
nella storia repubblicana. Ma nella sostanza, almeno secondo il modesto parere
del sottoscritto, il “vulnus” resta. La bocciatura della relazione in
cui erano indicate le direttive di politica estera rimane agli atti, anche se
sul piano politico e mediatico si è come al solito minimizzata la gravità di
quanto accadde a Palazzo Madama. Eppure era stato lo stesso D’Alema ad
annunciare, con la proverbiale sicumera, che “è un principio
costituzionale” tornare a casa quando non si ha la maggioranza. Poi, però,
ha fatto l’indiano e ha dimenticato l’esempio che proprio lui aveva dato quando
presentò le dimissioni da “premier senza diretta investitura
popolare”, dopo la sconfitta alle elezioni regionali. Di cosa ci
meravigliamo, quindi, se i cittadini-elettori si sentono lontani anni luce
da questo governo di facce di bronzo, che non sentì nemmeno il bisogno di
cambiare il titolare della Farnesina prima di riprendere la sua travagliata%0D
navigazione o – meglio – il suo sofferto galleggiamento?
E allora D’Alema ci faccia almeno
una cortesia: ci risparmi quel sorriso sardonico sotto i
baffetti, abbandoni quel ghigno sprezzante, rinfoderi quei lampi di
supponenza e tracotanza nello sguardo. Eviti, per una volta, di salire in
cattedra. Tanto non riuscirebbe a convincerci: la gente non è stanca della
politica. Ma non ne può più di “questa” politica, incarnata anche e
soprattutto da lui.