D’Alema e Veltroni non trovano l’Unione

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D’Alema e Veltroni non trovano l’Unione

31 Gennaio 2008

E’ una carta disperata,
quella che Massimo D’Alema prova a mettere sul piatto di una partita di poker che
sembra già aver definito il suo esito finale. Una mossa con la quale il
ministro degli Esteri uscente prova a gettare sabbia nell’ingranaggio del
motore di una macchina già lanciata verso le elezioni.

L’idea dell’ex
presidente dei Ds è semplice. Marini riesce a formare un governicchio per il
rotto della cuffia? Ebbene, allora per tenerlo in vita bisogna indire il
referendum elettorale in aprile. Dopodiché si vada pure alle elezioni. Come
minimo a giugno, se non oltre, visto che per centrare l’obiettivo di un sistema
elettorale compiuto si potrebbe arrivare ad allunare il brodo fino al 2009.

L’idea è spregiudicata. E
nelle intenzioni punta a creare una crepa nel centrodestra visto che nella Casa
delle Libertà c’è Gianfranco Fini, che quel referendum l’ha firmato. E c’è
l’Udc che vede nel referendum la certificazione della fine della propria autonomia
e della sua politica di distinguo dal resto della coalizione. Ma il tentativo,
realisticamente, appare estremo e anche un po’ acrobatico, visto che la Casa delle libertà
ricompattata fa sapere che l’unico scenario praticabile – caduto il governo con
un premier scelto dagli elettori – è solo quello delle elezioni anticipate. Il
voto, insomma, non può essere impedito o dilazionato da nulla. Tantomeno dalla
sirena rappresentata dalla possibilità di togliersi subito un peso e un nodo
intricato come quello del referendum che, comunque, si riproporrà dopo il
responso elettorale.

Nel gioco delle parti che il
Partito Democratico è costretto a mettere in scena, naturalmente, non tutti
condividono questo tentativo dalemiano. Come al solito la linea veltroniana
diverge, sia pure in maniera nascosta e sotterranea. Il sindaco di Roma è
costretto a vestire l’abito del “dilazionatore” ma in cuor suo non disdegna
affatto l’idea di andare subito al voto, in modo da potersi presentare nella
sua missione solitaria e non logorare l’appeal del “nuovo”.

Nel suo ragionamento c’è spazio anche per la sconfitta, ma
dovrà essere comunque una resa dignitosa, talmente dignitosa e innovatrice da
costringere il nuovo governo di centrodestra a cercare un accordo sui grandi
temi delle riforme. Il segretario del Pd, ufficialmente, offre il massimo
sostegno a Marini ma, con i suoi, appare scettico sulla possibilità di andare
avanti senza Forza Italia e anche poco convinto della possibilità di forzare la
mano con una maggioranza risicata. Alcuni dei parlamentari più vicini al
segretario del Pd assicurano che «non si può andare a raccogliere qualche voto
qua e là», né è verosimile fare le riforme senza Berlusconi.

Come dire che
Veltroni non ha intenzione di tradire se stesso e sporgersi sul cornicione del
ridicolo appoggiando una riforma elettorale in senso “tedesco”, l’unica che
forse potrebbe convincere l’Udc a cambiare idea e riaprire davvero la partita.
Lo slogan è quello di Pietro Nenni: “Si faccia quel che si deve, avvenga quel
che può”.

Sull’altro fronte il
dalemiano Nicola Latorre, per ora, non esclude nessuna possibilità: «Marini
cercherà di trovare un consenso largo per il governo». Ma se dovesse trovare
solo una maggioranza risicata? «Vedremo – si limita a rispondere – Tutto quello
che farà Marini avrà il nostro consenso».

In realtà, non sono in molti ad
attribuire grandi possibilità al tentativo di Marini. Lo scenario su cui si scommette
di più, anche nel Pd, è quello della rinuncia dopo aver constatato
l’impossibilità di dar vita ad un governo.

Di certo resta il grande problema
interno al Partito Democratico: quello della distribuzione dei poteri. Con lo
Statuto del nuovo partito non ancora approvato il timore di uno strapotere del
segretario resta fortissimo. Anche con questo si spiegano i tappeti rossi
srotolati dai dalemiani al tentativo di Franco Marini di allungare la vita
della legislatura. Il ragionamento condiviso è che non si può andare alle
elezioni con il rischio di ribaltare gli equilibri interni al partito,attraverso
un blitz veltroniano sulle candidature. Tanto più con l’attuale legge che,
attraverso lo strumento del listino bloccato, affida l’intero potere di vita e
di morte sui parlamentari al “capo” e alle segreterie.

Di fronte a questo
scenario, insomma, l’insistenza su un “governo di scopo” nasconde soprattutto
una priorità, o uno scopo, appunto: un soggettivo bisogno di fare chiarezza
all’interno di un partito in cui la zona d’ombra dei poteri rischia di
offuscare la stella dei leader di un tempo. Andato.