D’Alema, l’antipolitica e il fallimento del governo

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D’Alema, l’antipolitica e il fallimento del governo

25 Maggio 2007

Non c’è che dire, forse Massimo D’Alema non ha frequentato un buon corso di Storia dei Partiti, e del resto ai suoi tempi questa non era ancora trattazione esaustiva, per egli essersi espresso in termini così riduttivi e superficiali sulla crisi della I Repubblica. O magari, più semplicemente, il leader maximo, con la proverbiale arguzia che lo contraddistingue, ha voluto in nome del motto “mal comune mezzo gaudio” tirare in ballo l’argomento dell’antipolitica, fino a declinarlo in chiave storica, per occultare i pur manifesti imbarazzi attuali del governo di cui è autorevole esponente.

Sta di fatto che la sortita ha avuto una grande eco e immediatamente a vario titolo commentatori e comunità politica hanno inteso sviluppare i termini del dibattito, anche in virtù, di una sincronica iniziativa editoriale di Gian Antonio Stella e Paolo Rizzo. Nell’intervista in questione in verità l’unico riferimento storico riguarda l’affermazione che “è in atto una crisi della credibilità della politica che tornerà a travolgere il Paese con sentimenti come quelli che negli anni Novanta segnarono la fine della Repubblica”, e non si capisce perché, o meglio si capisce sin troppo bene, da queste poche righe il Corsera ne ricava un titolo a nove colonne in cui costruisce l’identità tra l’immediato passato e gli attuali sviluppi della politica italiana. A prescindere dalla “legittima suspicione” sugli interessi editoriali e sistemici di Via Solferino, la chiosa di D’Alema lascia il tempo che trova proprio perchè non adeguatamente contestualizzata.

Nel disinvolto esercizio di “linkage” tra presente e passato, il leader diessino trascura alcuni importanti fattori che, in concausa tra di loro, hanno impattato sullo scenario italiano, finendo per rivoluzionarne gli assetti. Il crollo dell’Urss e il venir meno della legittimazione da “fattore k”, la spinta europeistica e le pressioni che Maastricht imponeva sul nostro debito pubblico, la comparsa di un attore nuovo e genuinamente antisistema come la Lega, la “ropture” del principio proporzionale promossa dal movimento referendario, l’inquinamento prodotto dal fenomeno mafioso al suo apice, vanno assunte tutte, e sinergicamente, come componenti decisive nel determinare la destrutturazione di un sistema politico che del resto covava in sé, nella deriva consociativista, partitocratrica e di tutela clientelare degli interessi, il virus della propria cagionevolezza.

Da qui il progressivo distacco tra una classe dirigente sempre più autoreferente e la società civile, d’altronde misurato già a fine anni Ottanta nell’incremento dei tassi di astensionismo e di non partecipazione al voto, veniva poi commutato in antipolitica ideologica e militante in seguito alle vicende di Tangentopoli e in molti casi all’uso strumentale delle inchieste giudiziarie. Una commistione ed una combustione di fattori, anche drammatici, quindi del tutto unici ed irrepetibili, che difficilmente possono essere commisurati agli sviluppi attuali. Rispetto a questi semmai D’Alema farebbe bene più semplicemente a fare i conti con la debolezza cronica, e del resto evidente sin dalla sua fase costitutiva, della propria maggioranza di governo. Il dato è politico e non storico, e la crisi politica in atto è innanzitutto la crisi del governo in carica. L’incapacità dell’attuale esecutivo a mettere in essere una qualsivoglia progettualità politica e di indirizzo, causa la contraddittorietà, ergo la paralisi, che scaturisce al momento di trovare posizioni comuni all’interno di una coalizione “suk “ e di conseguenza nelle aule parlamentari, ha fatalmente prodotto, quello si, un sentimento di sfiducia diffuso in gran parte delle componenti sociali e innanzitutto nella gente comune.

Se questo, come più che probabile, continuerà a registrarsi nelle scelte delle prossime elezioni amministrative, allora si dovrà prender atto del fallimento dell’attuale assetto e del precoce esaurimento della stagione Prodi. D’altra parte l’opposizione, se davvero vuole tesaurizzare il deficit politico e di consenso del governo, dovrà preoccuparsi di assumere un’iniziativa decisa e risoluta, e contestualmente rilanciare la propria spinta propulsiva. Se è vero che resta inviolabile l’ancora fulgido carisma democratico di Berlusconi, specie nel momento della formazione del consenso rimane l’unico in grado di mobilitare le masse e generare una benefica tensione ideale in seno all’elettorato d’area, è anche vero che la Cdl e Fi in particolare devono riprendere  in capo la guida del cambiamento e dei processi di innovazione politica, guardando con interesse al referendum anti-frammentazione e puntando una volta e per tutte ad un’aggregazione coesa in grado, anche di fronte all’”exit strategy” del Pd, di rappresentare nel migliore dei modi quei contenuti e quei valori largamente maggioritari nella società reale.

In caso contrario, se cioè all’immobilismo si opporrà eguale immobilismo, si sarà persa una grande opportunità e prestato il fianco alle speculazioni pretestuose di chi, come D’Alema, altro non vuole che conservare il Governo in una infausta e logorante sopravvivenza. Il rischio potrebbe essere allora, a dispetto delle esigenze del Paese in cammino verso le molteplici sfide del XXI secolo, quello di guardare, impotenti, i molti Tomasi di Lampedusa della maggioranza ballare il loro valzer nel Palazzo, all’insegna del più classico “tutto cambia affinché tutto resti uguale”.

 filipposalone@hotmail.it