Dalla lussuria all’invidia. Viaggio attraverso i vizi capitali

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Dalla lussuria all’invidia. Viaggio attraverso i vizi capitali

Dalla lussuria all’invidia. Viaggio attraverso i vizi capitali

21 Ottobre 2007

Alcuni giorni fa, una televisione
generalistica del nostro paese, per la prima volta dopo 36 anni, ha mandato in
onda Arancia meccanica, il
leggendario film di Stanley Kubrick uscito nel 1971. Come è noto, la pellicola
è tratta dal romanzo distopico di Anthony Burgess, pubblicato nel 1962, in cui
si immagina una società immersa in un’esasperata violenza, soprattutto ma non
esclusivamente giovanile.

La provocazione che voleva
lanciare Burgess, spiegata chiaramente nell’intervista che è riportata in coda
all’edizione italiana (Einaudi), era rivolta ad alcuni filoni del pensiero
progressista dell’epoca che avevano la tendenza a spiegare ogni fenomeno di
devianza ricorrendo a considerazioni sociologiche, senza mai guardare alla
responsabilità etica del singolo. Visto che la società era quella che era ed
ogni manifestazione deteriore al suo interno non era mai riconducibile agli
individui che la popolavano e alle loro libere scelte, secondo le dottrine
prevalenti all’epoca, Burgess ne traeva la conclusione provocatoria che l’unica
prospettiva immaginabile fosse quella di un degrado e di una violenza
generalizzate. A suo giudizio, realtà da cui era possibile riscattarsi – per
usare sempre la terminologia dell’epoca – con un percorso di autocoscienza
morale, in cui il delinquente fosse messo a confronto con gli effetti dei suoi
crimini (si ricorderà la celebre scena in cui Alex, il protagonista, è
costretto a guardare la pellicola delle sue azioni violente, sottoposto ad un
macchinario che gli tiene coattivamente aperte le palpebre).

Sfogliando l’ultimo libro di
mons. Gianfranco Ravasi – già Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana
di Milano e ora nuovo Presidente del Pontificio Consiglio per la cultura – e,
soprattutto, leggendone l’introduzione mi è tornato alla mente il film di
Kubrick e, in una certa misura, mi sono stupito di non averlo trovato fra i
vari materiali utilizzati per illustrare i vizi capitali, che vanno ovviamente
da fonti testamentarie a disquisizioni teologiche e filosofiche, da rinvii
storici a brani di narrativa, da contributi artistici a sequenze
cinematografiche, dal senso comune alla psicanalisi. 

Mons. Ravasi, usando
un’espressione bella ed efficace, parla dell’esistenza di una sorta di “legge
di Newton dell’anima”: “I vizi rivelano diversi profili […]. C’è, però, una
base comune. Essi nascono all’interno della persona libera e cosciente […]”; e
più oltre, “L’immagine delle due vie, simbolo della libera scelta, fa parte di
tutte le culture”. Superate le incrostazioni ideologiche che ci portavano a
disconoscere totalmente la componente volontaria nella condotta morale, pur
senza cadere nell’eccesso opposto che farebbe astrazione del contesto sociale
in cui operano i soggetti, è bene non dimenticare che il comportamento di
ognuno di noi, fino a prova contraria, è il frutto della nostra libera volontà,
di cui ci dobbiamo considerare eticamente responsabili. Detto per inciso,
questo è un punto che l’etica cattolica condivide con il liberalismo, anche
laico, e sul quale non è mai inutile insistere. Superbia, avarizia, lussuria,
ira, gola, invidia, pigrizia contrapposte a fede, speranza, carità, prudenza,
giustizia, fortezza e temperanza, i sette vizi capitali messi a confronto con
quelle che un tempo venivano chiamate le “virtù teologali” (su cui mons. Ravasi
ha scritto nel 2005 Ritorno alle virtù,
l’introduzione al libro in uscita in questi giorni o, se si preferisce, il suo
versante “positivo”) ci può forse fare sorridere, se non altro per il
linguaggio demodé.

Ma anche lo spirito più laico non
può trascurare che questa griglia etica è giunta ai Padri della Chiesa dalle
culture classiche, grazie al prezioso lavoro di intermediazione fatto da autori
come Plotino. È quindi un tessuto di valori per una “vita buona, vita felice”,
se vogliamo usare la famosa espressione aristotelica. Si può fare riferimento
ad un orizzonte di fede, come ad uno laico, ma questa seconda ipotesi non
comporta, come forse alcuni intendono, un relativismo etico che non sa distinguere
il bene dal male, il positivo dal negativo, l’utile dal dannoso, il
profittevole dal deleterio. In altre parole, ricondurre l’attenzione ai vizi e
alle virtù è un discorso classico, in ogni senso s’intenda questa parola, e
quindi dedicarvi un libro significa scrivere per tutti, per ogni potenziale
lettore, come testimoniano i bellissimi versi di Alda Merini indirizzati a
mons. Ravasi e da lui riportati nella chiusa della presentazione del volume:
“Il tempo ci divora su distanze / che noi non conosciamo: / ho una fede diversa
dalla tua, / io ho una fede che non vuole vedere. / Affido le mie mani al mio
destino, / e là ti incontro”.

Gianfranco Ravasi, Le porte del
peccato. I sette vizi capitali
, Mondadori, 2007, (pp. 243 – € 17,50).