Totalmente presa dalle iniziative fiscali di Tom Daschle, Washington si è accorta a fatica di una sorta di miracolo avvenuto all’estero. In Iraq si sono tenute le elezioni locali. Il giorno delle votazioni non è stato funestato da alcun episodio di violenza. La sicurezza è stata garantita dalle forze irachene con un supporto minimo da parte americana. Il campo dei partecipanti era composta da un favoloso bazar di 14.400 candidati in rappresentanza di 400 partiti, e i risultati finali sono stati sensibilmente positivi sia per l’Iraq che per gli Stati Uniti.
L’Iraq si è mosso dal settarismo religioso verso un più terreno nazionalismo. “Tutti i partiti che avevano le parole ‘islamico’ o ‘arabo’ nei loro nomi hanno perso” ha osservato Amir Taheri, esperto di questioni mediorientali. “Al contrario, tutti quelli che esibivano la parola ‘Iraq’ o ‘iracheno’ hanno vinto”.
Il primo ministro Nouri al-Maliki si è trasformato da capo di un piccolo partito islamico a leader del “Partito dello Stato delle leggi”, che ha impostato la campagna elettorale sui temi di sicurezza e nazionalismo. Al-Maliki è stato protagonista di una schiacciante vittoria. Il suo principale rivale, un partito religioso filoiraniano sciita di ispirazione settaria, è uscito devastato dalle elezioni .
Un altro tra i principali partiti islamici, quello del filoiraniano Sadr, è crollato dall’11 al 3 per cento, perdendo malamente nella sua roccaforte in Baghdad. Anche il partito islamico Fadhila, predominante a Bassora, è stato quasi spazzato via. Il partito sunnita legato alla Fratellanza musulmana e alla ribellione, una volta preponderante, ha subito un pesante arretramento. Al suo posto sono emersi leader tribali di estrazione popolare ed esponenti sunniti non religiosi.
Tutto ciò ha appena toccato la sensibilità della Washington ufficiale. Dopo tutto, quel che è accaduto è una sostanziale contraddizione di quello che è il racconto standard che si trova sui media, dove si parla del “fiasco Iraq”.
Un noto pensatore dello schieramento conservatore ha affermato in tempi relativamente recenti, ossia nel 2004, che parlare di democrazia in Iraq era “una fantasia puerile”. Un altro sogghignava sul fatto che le elezioni del 2005 che portarono Maliki al potere “non furono elezioni, ma un censimento”, con ciò intendendo che la gente votò meccanicamente in accordo con la propria etnia e la propria identità religiosa. In altre parole, quei primitivi non avevano alcuna idea di cosa fosse la democrazia, e tentare di costruirne una, in quel posto, era una follia.
Quello di cui mancano tali critiche è proprio ciò di cui i critici vanno fieri di possedere: la consapevolezza del contesto. Che cosa si aspettavano dalle prime elezioni dopo trent’anni di un regime totalitario che ha distrutto la società civile e ha sistematicamente annichilito qualsiasi leadership indigena o comunque indipendente? I soli retaggi sociali rimasti dopo Saddam Hussein erano l’appartenenza etnica e religiosa.
Però negli anni successivi, mentre i critici snobbavano l’Iraq, cominciò a svilupparsi l’intelaiatura base di una società civile: una battagliera stampa indipendente, una pletora di partiti, l’abitudine a negoziare e cercare alleanze. Riflettendo questa nuova realtà, l’ayatollah Ali Sistani questa volta si è dichiaratamente astenuto dal sostenere alcun partito, dando un forte segnale in chiave anti-Iran di un ritorno alla tradizione irachena di governo secolare.
Il grande vincitore strategico, in questa vicenda, sono gli Stati Uniti. Il grande perdente è l’Iran. I partiti spalleggiati da Teheran sono in ritirata. Il primo ministro che ha scommesso la sua carriera su un accordo strategico con l’America è emerso vittorioso. Per di più, questo riallineamento da stato nemico ad alleato emergente, a differenza della giravolta dell’Egitto negli anni Settanta, che da alleato della Russia si trasformò in alleato degli Stati Uniti, non è opera di un singolo autocrate (come Anwar Sadat), ma il riflesso di un’opinione generale espressa in un’elezione democratica.
Non si vuole dire che questi sorprendenti risultati siano irreversibili. Si profilano tre possibili pericoli: a) un colpo di stato da parte di un apparato militare in crescita e relativamente pulito, disgustato dalla corruzione dei politici – il familiare schema post-coloniale dello scorso mezzo secolo; b) un uomo forte che emerga dall’attuale sistema democratico (Maliki?) e che lo sovverta, ricalcando i modelli russo e venezuelano; c) il collasso dell’attuale sistema dovuto a un ritiro prematuro degli Stati Uniti che porti al crollo della sicurezza.
Ad opporsi ai primi due pericoli c’è il lavoro degli iracheni. Ad opporsi al terzo quello degli Stati Uniti. E’ per questo che la reazione del presidente Obama a queste rimarchevoli elezioni, una dichiarazione superficiale in cui si afferma che “deve proseguire il processo che vede gli iracheni assumersi la responsabilità del loro futuro”, è stato fin troppo distaccato e ingeneroso.
Quando si diventa presidente degli Stati Uniti se ne eredita la loro storia, anche quelle parti che si sarebbero fatte in maniera diversa. Obama potrebbe sostenere che i risultati ottenuti in Iraq non sono valsi i sacrifici sostenuti dagli americani. Ma per quel che riguarda la politica attuale e futura, è estremamente difficile trarre dei bilanci. Nonostante l’opposizione di Obama, l’America è andata avanti e ha creato un piccolo miracolo nel cuore del Medio Oriente arabo. Il presidente Obama è adesso il custode di questo miracolo. E’ suo dovere, quale leader della nazione che ha dato vita a questa neonata democrazia, assicurarsi di non far nulla che possa comprometterla.
Traduzione Enrico De Simone
Tratto da The Washington Post