Dall’Islam alla Cina è la poesia che dà voce agli uomini liberi

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Dall’Islam alla Cina è la poesia che dà voce agli uomini liberi

Dall’Islam alla Cina è la poesia che dà voce agli uomini liberi

09 Marzo 2008

Le donne
hanno un ruolo centrale nella poesia islamica di oggi, sono loro che stanno
raccontando la guerra che è scoppiata dentro l’Islam, consapevoli di mettere a
rischio la propria vita. E’ una ribellione contro l’autoritarismo e il
settarismo di matrice etnica e religiosa che affligge tanti paesi islamici.
Fadwa Toqan, la più amata delle autrici palestinesi, ha lavorato sulle forme
della poesia islamica classica per arricchirla da un punto di vista ritmico,
creando un nuovo verso libero chiamato shir
al hurr
. Un lavoro simile di ammodernamento della lingua lirica l’ha svolto
l’irachena Nazik al Mala’ika. Queste poetesse molto spesso sono giovani,
poliglotte, viaggiatrici instancabili. Raccontando se stesse, grazie al lavoro
di scavo autobiografico, testimoniano la condizione più generale delle donne
nel mondo arabo. Come Joumana Haddad, libanese e cristiana, premiata a Dubai
dalla Arab Press.

Per
l’ortodossia l’idea di riformare la letteratura araba è un’offesa alla
tradizione. Nel 1992, in
Arabia Saudita, il poeta Sadiq Abd al Karim Milalla venne decapitato per aver
dichiarato che l’Islam era una religione falsa, il profeta un ciarlatano e il
Corano un’invenzione di Maometto. L’Associated
Press
ritiene che il numero di poeti iracheni che negli anni Novanta viveva
in esilio durante il regime baathista era di qualche centinaio. Adnan al-Saigh è
un modernizzatore che crede nelle virtù della poesia in prosa e nella
contaminazione tra stili e forme artistiche. Leggiamo questi versi tratti da
una raccolta uscita in Svezia nel 1997: “Iraq che trema / Ogni volta che passa
un’ombra / Immagino una bocca di fucile / che mi punta / Oppure un labirinto, /
Iraq che non abbiamo più / Metà della sua storia / Canzoni e ombretti / Metà
dittatura”.

La poesia araba moderna e
contemporanea ha avuto le sue voci eccellenti che hanno creduto nel dialogo e
in una maggiore apertura verso l’Occidente. Come Adonis, il grande poeta
siriano che negli anni Sessanta fonda il gruppo Tammuz, scegliendo il nome di questa antica divinità babilonese per
descrivere il rinascimento della cultura araba. Adonis ha viaggiato in Europa,
ha vissuto a Parigi dove ha insegnato alla Sorbona, ha creato riviste e
pubblicato una mole imponente di versi. Poeti come Adonis hanno scoperto gli
elementi di comunanza tra civiltà diverse e i momenti storici di ridefinizione
dell’identità. Adonis ha scritto pagine importanti su Rimbaud, ricordando il
periodo che il poeta francese trascorse in Arabia Saudita commerciando nella
città di Aden. La cultura parigina si ribaltava in quella araba, in una ricerca
stilistica ed esistenziale affannosa e all’insegna della sregolatezza. Sono
questi gli elementi poetici biunivoci in grado di mescolare le carte della
geopolitica.

Durante la Seconda metà del
Novecento l’Asia è stato lo scenario di guerre, dittature e repressioni che in
parte tendiamo a dimenticare. Il Vietnam non ha solo vissuto una delle più
lunghe e atroci guerre combattute dagli Stati Uniti per contenere l’Impero
Sovietico, ma ha dovuto sopportare anche una delle peggiori dittature comuniste
dell’Estremo Oriente. In gioventù il poeta vietnamita Nguyen Chi Thien aveva
creduto all’utopia rivoluzionaria dei Viet
Minh
ma quando i comunisti presero il potere per lui si aprirono le porte
della galera. Ventisette anni di carcere. Con Thien i governi occidentali si
sono dimostrati tiepidi, lenti, goffi. Nel 1979, quando cercava di venire via
dall’inferno di Saigon, Thien chiese inutilmente asilo e un biglietto d’aereo
alle ambasciate inglesi e francesi. Riuscì solo a convincere alcuni diplomatici
a portare fuori dal paese i suoi manoscritti. Lo aspettavano le delizie dell’Hanoi Hilton, la peggiore delle prigioni
vietcong. Durante la prigionia Thien vinse il Poetry Award di Rotterdam del 1985. Human Rights Watch lo considera un eroe. Alla fine è emigrato negli
Stati Uniti.

In Cina dopo Mao c’è stata
Tiananmen. Non quella del 1989 che conosciamo tutti: il ragazzo che blocca i
carri armati e chissà che fine ha fatto. Quella è la “Seconda Tiananmen”,
chiamiamola così. La prima risale al 1976, dopo la morte di Mao, quando la
folla decise per la prima volta di riunirsi in piazza e arrivarono i carri
armati (il finale è identico, spari, morti e feriti). Alla fine degli anni
Settanta tra le mani dei giovani di Pechino circolavano le Poesie di Tiananmen, una serie di canzoni popolari nate sull’onda
della rivolta. Le poesie furono giudicate “controrivoluzionarie” ma con le
prime, timide aperture di Deng Xiaoping, rientrarono nello standard socialista.
A quel punto anche i poeti dell’underground che avevano partecipato alla
rivolta cominciarono a uscire dagli scantinati dove si erano rinchiusi.

La storia del comunismo
cinese alterna momenti di repressione indiscriminata a fasi di ‘apertura’ e di ‘riforma’.
Tra gli anni Settanta e Ottanta i poeti della cosiddetta “letteratura delle
ferite” ebbero modo di elaborare il lutto delle purghe maoiste. La rivoluzione
culturale era finita e si cercava un modo più realistico (in Italia avremmo detto
neorealistico) di raccontare la realtà. Molti poeti vennero riabilitati e
poetesse come Chen Jingrong e Zhen Ming furono applaudite dal pubblico e dalla
critica.

La Cina vive da anni in un clima
di speranza fredda. Il gruppo dei Misty
Poets
, legato alla rivista Jintian
(“Oggi”), negli anni Ottanta si è opposto alle restrizioni imposte dal regime
di Pechino. Il poeta Bei Dao ha percorso strade alternative a quelle della
poesia ufficiale, più sperimentali e ricche di echi modernisti, approdando a
quella che gli avversari definiscono menglong
shi
, poesia oscura, volutamente incomprensibile. Il massacro di Piazza
Tiananmen del 1989 ha fatto ripiombare la Cina nel buio e nella paura. Durante i giorni più
duri della repressione, i ragazzi leggono i poemi di Bei Dao sulle barricate (il
poeta che aveva partecipato alla rivolta del ’76).

Nel 1997 il gigante
comunista stende i suoi artigli su Hong Kong dove viene ammainata la bandiera
inglese. I poeti e gli scrittori della metropoli si riuniscono intorno alla
radio Voice of Democracy che nello
stesso anno viene ammutolita. La rivista Jintian era stata chiusa dalle
autorità e per continuare a scrivere i suoi redattori hanno dovuto emigrare in
Svezia e poi negli Stati Uniti.C’è qualcosa di tremendamente ripetitivo in
queste notizie e si capisce perché chi guarda dall’esterno la cultura cinese
parli di “anemia spirituale” e “depressione culturale”. Per i giovani poeti
cinesi non resta che spogliare la realtà di ogni bellezza. La natura umana alla
fine ne esce piuttosto disumanizzata ma c’è ancora voglia di libertà.