Dallo Yemen alla Somalia: Al Qaeda alla conquista del Corno d’africa

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Dallo Yemen alla Somalia: Al Qaeda alla conquista del Corno d’africa

13 Febbraio 2010

Un canale di comunicazione e transito tra Yemen e Corno d’Africa per al Qaeda: la minaccia non è da poco. A formularla è stato Saeed al Shehri, ex detenuto di Guantanamo e numero due di Aqap, ‘Al Qaeda in the Arabian Peninsula’, nata un anno fa dalla fusione delle cellule yemenite e saudite dell’organizzazione terroristica e guidata dall’ex segretario di Osama bin Laden, Abdel-Karim Wahishi. L’8 febbraio, in un messaggio audio, al Shehri non solo ha incitato i fedeli alla guerra santa islamica, il jihad, per colpire cristiani ed ebrei e attaccare ovunque gli interessi di americani e “crociati”, ma ha indicato un preciso obiettivo strategico: assicurarsi il controllo dello stretto di Bab el Mandeb, il tratto di mare largo soltanto 30 chilometri che separa lo Yemen dal Corno d’Africa all’altezza di Gibuti e che collega il Mar Rosso al Golfo di Aden e all’Oceano Indiano.

L’importanza strategica dell’obiettivo di Aqap è evidente. Non si tratta soltanto di bloccare l’accesso al Mar Rosso, ma di stabilire una via di comunicazione sicura tra le cellule terroristiche della Penisola Araba e quelle africane del Corno d’Africa e dell’Africa sahariana. Lo Yemen è un facile terreno di conquista per al Qaeda. È un paese molto povero (si trova al 140° posto dell’Indice di sviluppo umano) dove però circolano 60 milioni di armi su una popolazione di circa 22 milioni di abitanti. Lo scontento generale per le difficili condizioni di vita si è accentuato nel 2009 dopo che il governo ha tagliato del 50% le spese pubbliche. Si deve aggiungere che ampie estensioni di territorio nazionale sono fuori controllo e ad aggravare l’instabilità del paese contribuisce la guerra contro il potere centrale in mano sunnita combattuta da anni nel nord, nel governatorato di Saada, dove si concentrano le milizie sciite del predicatore Abdel Malik al-Houti sostenute dall’Iran. È di queste ore la notizia di un cessate il fuoco dichiarato dal presidente Ali Abdallah Saleh dopo la conclusione di una intensa offensiva militare durante la quale sono stati uccisi 24 ribelli.

Sull’altra sponda dello stretto la situazione è ancora peggiore. Le milizie legate ad al Qaeda in Somalia controllano intere provincie e alcune delle città maggiori contendendo a un governo da sempre incapace di svolgere le proprie funzioni la stessa capitale, Mogadiscio. Pare che, proprio mentre Saeed al Shehri lanciava il suo appello, delle truppe etiopi abbiano varcato ancora una volta il confine entrando in territorio somalo per contrastare l’avanzata delle forze antigovernative insediate a Baidoa e in altre cittadine vicine al confine con l’Etiopia. Intanto a Mogadiscio si intensificavano gli scontri tra le forze governative, sostenute dai ‘caschi verdi’ della missione Amisom dell’Unione Africana, e i combattenti Shabaab, il movimento integralista che all’inizio dell’anno si è dichiarato pronto a dar manforte ai “fratelli” yemeniti.

Questo spiega l’importanza dei prossimi sviluppi negli altri stati del Corno d’Africa e dell’Africa orientale sui quali l’attenzione internazionale si sta concentrando non senza apprensione. Preoccupa in particolare la stabilità di due stati confinanti con la Somalia: l’Etiopia e il Kenya.

L’Etiopia, che due anni fa inviando le proprie truppe ha impedito la caduta del governo somalo e la vittoria dell’opposizione armata, dal 1995 è saldamente governata dal primo ministro Melles Zenawi, ma fronteggia due situazioni di crisi permanenti: il movimento separatista armato dell’Ogaden e i difficili rapporti con l’Eritrea, dopo la guerra del 1998-2000 scatenata da questioni tuttora irrisolte di demarcazione del lungo confine tra i due stati. Tuttavia sono le elezioni generali del prossimo aprile il fattore di allarme maggiore. Come si ricorderà, i risultati delle elezioni del 2005, alle quali ha partecipato per la prima volta l’opposizione che aveva rifiutato di presentarsi a quelle precedenti, sono stati “contestati” dal governo che, al buon successo ottenuto dai suoi avversari, ha risposto arrestando decine di candidati neoeletti. Persino il nuovo sindaco della capitale, Berhanu Nega Bonger, non ha mai assunto la carica e dal 2007 vive negli Stati Uniti. Il consolidamento del governo Zenawi è inoltre costato allora alcune centinaia di vittime, uccise dalle forze dell’ordine durante le manifestazioni di protesta.

Quanto al Kenya, i problemi derivano innanzi tutto dalle persistenti difficoltà economiche della popolazione. La conflittualità endemica che, soprattutto nel nord arido popolato da etnie di pastori transumanti, causa uno stillicidio di vittime quasi quotidiano per il controllo di punti d’acqua e pascoli, non è che uno dei segnali di allarme. Un altro è la nuova costituzione che un’apposita commissione è stata incaricata di redigere e che elimina la carica di primo ministro creata dopo la crisi post-elettorale del 2008 per controbilanciare il potere del capo dello stato: potrebbe funzionare, ma potrebbe invece riportare troppo potere nelle mani di una sola persona con conseguenze di sicuro negative. Inoltre la preoccupazione per la presenza di cellule terroristiche legate ad al Qaeda, che segnarono un primo successo nel 1998 con l’attentato all’ambasciata USA di Nairobi, è accresciuta da quella dei terroristi somali mescolati alle decine di migliaia di profughi che cercano in Kenya scampo alla guerra civile in corso in Somalia da quasi 20 anni. Per la sua posizione geografica, la stabilità del Kenya è essenziale non soltanto per il Corno d’Africa, ma per l’intera regione.