Dare la morte non è un atto medico
19 Dicembre 2006
di redazione
Ivano Argentini, Cardiologo; Donatella Balducci, Anestesista-rianimatore; Carlo Bellieni, Intensivista neonatale; Nunzia D’Abbiero, Radioterapista; Giovanni Battista Guizzetti, Geriatra e gerontologo; Marco Maltoni, Palliativista; Debora Meloni, Psichiatra; Nicoletta Mininni, Neuropsichiatria infantile; Roberto Romanelli, Internista epatologo; Giuliana Ruggieri, Chirurgo
La toccante vicenda di Piergiorgio Welby solleva angoscianti dilemmi
morali e seri problemi medici su cui, come specialisti, ci stiamo
interrogando.
Quando all’interno di una relazione così particolare come è quella tra
medico e paziente, si pone una richiesta di morte significa che
qualcosa, qualcosa di fondamentale, è venuto meno.
La domanda di morte è in se stessa contraddittoria, e riteniamo
riduttivo ricondurla semplicemente alla categoria della libera
autodeterminazione. Quella del malato è una condizione fisica e
psicologica di fragilità e affidamento, densa di richieste spesso
inespresse, mascherate, a volte inconsapevoli. Sappiamo, per la nostra
specifica esperienza professionale e basandoci sugli studi clinici a
disposizione, che l’autonomia del paziente è gravemente inficiata da
fattori interni quali la depressione o l’angoscia di morte, e fattori
esterni quali il tipo di sguardo che viene rivolto al paziente dai
familiari, dagli amici, da chi lo assiste.
Cosa sia venuto meno nel caso di Piergiorgio Welby, non possiamo dirlo,
non conoscendone la storia personale, i vissuti e la cartella clinica,
ma al medico alcune riflessioni si impongono, dal momento che altre
persone, in condizioni di malattia simili o anche più pesanti, non
fanno la stessa richiesta.
Ci
pare di capire che la richiesta non provenga da un pressante e
perdurante dolore fisico: in questo caso sarebbe compito del medico
curante, che certamente ha provveduto in tal senso, fornire tutti gli
strumenti farmacologici oggi esistenti ed assolutamente efficaci, per
contrastarlo. Ma non sembra essere questo il problema.
Da quanto
leggiamo sulla stampa, e dagli scritti di Piergiorgio Welby, la
richiesta di morte nascerebbe da una stanchezza interiore, da
un’insopportabilità morale e psicologica della propria malattia.
1
– Per questo ci chiediamo: sono stati messi in opera tutti gli
interventi per fornire un ambiente adeguato? L’assistenza a un malato
cronico è facilitata in strutture e ambienti stimolanti, come una
stanza non angusta, colorata, con un arredo funzionale e allegro. Tutto
ciò sarebbe essenziale in un qualunque centro di cure per persone
affette da patologie croniche.
2 – Ci chiediamo
inoltre se sia stato offerto un qualificato aiuto psicologico e una
doverosa consulenza per valutare se alla base della richiesta di Welby
ci sia una patologia depressiva. Sappiamo che questa è presente in
moltissimi casi di malati gravi che chiedono la morte. La depressione
viene diagnosticata ancora troppo raramente in questi pazienti, ma va
detto che può e deve essere curata. Una richiesta di morte fatta in uno
stato depressivo non sarebbe, ovviamente, una richiesta libera.
3
– Ci chiediamo poi se l’ambiente relazionale in cui si trova a vivere
Piergiorgio Welby sia umanamente stimolante; se sia inoltre
incoraggiante ad uno sguardo su di sé che non lo riduca ad essere un
simbolo, l’incarnazione di un “caso” o di una malattia.
4
– Ma su Welby è stato esercitato il cosiddetto accanimento terapeutico?
Il termine nasce da un giusto desiderio di stigmatizzare un
comportamento errato di proseguimento di cure inutili, ma è
intraducibile in inglese, cioè nella lingua in cui circola la grande
massa di informazioni scientifiche e mediche sulla questione. La
dizione “accanimento terapeutico” nella nostra lingua fa supporre che
esistano medici che per motivi non chiari cercano volontariamente di
prolungare le sofferenze di un malato.
Crediamo piuttosto, seguendo
la letteratura anglosassone, che sia più chiaro distinguere tra
trattamento futile e utile, assumendo quindi un esplicito criterio di
proporzione. Il primo è da evitare, il secondo è obbligatorio per il
medico. Dare un antibiotico o fare un trapianto cardiaco a chi sta
morendo di cancro entro brevissimo tempo è futile. Dare un supporto
respiratorio a chi non sta morendo e ragiona in modo perfetto è utile,
dunque doveroso. Questo è il caso di Piergiorgio Welby, che, a quanto
ne sappiamo, non è un malato terminale: se cioè si sospendesse la
somministrazione di acqua, cibo e aria, l’interruzione delle cure (e
non la malattia) costituirebbe la causa della morte di Welby, che ha
una vita personale fortemente tessuta di relazioni e ricca di
consapevolezza.
5
– Si obietterà che Welby non desidera quel trattamento, ma sospenderlo
per farlo morire è un atto medico? Ci si può certamente appellare alla
libertà di cura: il paziente ha sempre, in qualunque momento, la
libertà di rifiutare un trattamento. Nel momento, però, in cui si
attribuisce la decisione sulla vita e la morte esclusivamente al
malato, esaltandone l’autodeterminazione, appare del tutto superfluo
ricorrere alla professionalità del medico, soltanto come esecutore di
una sentenza di morte. Spegnere un interruttore per far morire una
persona non è un atto medico e può farlo chiunque: perché volere uno
specialista per spingere un bottone, perdipiù mortale? Neanche per
somministrare il sedativo per via orale richiesto da Welby come
“sedazione terminale” serve necessariamente un atto da parte del
medico. Ma il medico ha un compito meramente esecutivo? Può essere
chiamato solo per applicare una decisione del paziente, senza nessuna
interazione con quest’ultimo?
In conclusione,
prima di sancire che qualcuno sta liberamente chiedendo la morte è
assolutamente necessario accertarsi che sia stato effettuato un
corretto intervento medico a tutto campo: ambientale, sociale,
psichiatrico, psicologico e analgesico, per capire senza possibilità di
equivoco e di dubbio se non siano motivi esterni superabili che
impongono alla volontà una decisione fatale. Infine, dare la morte non
può essere annoverato tra gli atti medici.