Darfur, d’ora in poi Obama terrà d’occhio il presidente Bashir
22 Ottobre 2009
di Anna Bono
Gli Stati Uniti tenteranno nuove vie per contribuire alla stabilità e alla pace in Sudan. Lo hanno annunciato il presidente Barack Obama e il segretario di stato Hillary Clinton il 19 ottobre illustrando i tre obiettivi su cui intendono concentrarsi: risolvere definitivamente il conflitto che dilania la regione del Darfur dal gennaio del 2003, ottenere la piena attuazione dell’Accordo di pace complessivo che nel 2005 ha posto fine alla ventennale guerra tra il nord arabo islamico e il sud cristiano e impedire al terrorismo internazionale di reinsediarsi nel paese.
Il cambiamento di rotta di cui tutti parlano è l’accento posto dall’amministrazione USA sul dialogo abbandonando minacce di azioni militari e di isolamento internazionale. L’intenzione è di influenzare la politica di Khartoum con un sistema di “incentivi e disincentivi”, senza peraltro attenuare la pressione sul governo sudanese come dimostrerebbe il fatto che il presidente Obama, malgrado il disappunto manifestato dal portavoce del presidente Omar al Bashir, continua a usare il termine “genocidio” in riferimento a quanto avviene in Darfur, dove la guerra ha causato oltre due milioni di profughi e sfollati e forse alcune centinaia di migliaia di morti.
Mancando per ora più dettagliate informazioni sugli incentivi e i disincentivi che la Casa Bianca intende usare, la vera novità e l’aspetto più promettente del nuovo corso del dipartimento di stato americano sono rappresentati dall’intenzione espressa da Washington di valutare d’ora in poi quanto avviene in Sudan non sulla base di dichiarazioni di intenti, firme di memorandum di intesa e adesione a negoziati organizzati dalla diplomazia internazionale, ma di “cambiamenti verificabili sul terreno”: in altri termini, fatti concreti, risultati tangibili e non parole.
C’è da domandarsi se, nell’accogliere con favore l’apertura al dialogo degli Stati Uniti, il governo sudanese, l’Splm (il partito che dal 2005 amministra il Sud Sudan), e i movimenti antigovernativi del Darfur, per una volta concordi, abbiano considerato la reale portata di questa affermazione che, se tradotta in pratica, impegna la diplomazia americana a esigere da Khartoum e dai suoi interlocutori il rispetto sostanziale delle istituzioni democratiche e questo in un momento estremamente delicato della storia del paese.
L’anno prossimo, infatti, si svolgeranno in Sudan le elezioni presidenziali, legislative e amministrative e, subito dopo, nel 2011, si terrà il referendum previsto dall’Accordo di pace complessivo con cui le regioni del sud dovranno decidere se mantenere l’attuale stato di autonomia amministrativa oppure optare per la secessione.
Il percorso democratico su cui gli Stati Uniti intendono vigilare è irto di ostacoli e di insidie, a partire dall’esito del censimento realizzato nei mesi scorsi al fine di compilare le liste degli aventi diritto al voto e che sono stati contestati in particolare dall’Spla, secondo cui il numero degli abitanti del sud è stato sottostimato e sovrastimato invece quello degli abitanti del nord, il che darebbe un vantaggio elettorale ai leader politici della componente arabo islamica del paese concentrata nelle regioni settentrionali.
Proprio all’indomani dell’annuncio di Washington, si è aperta in Sudan una crisi politica con la decisione dell’Splm di ritirare i propri rappresentanti in parlamento per almeno una settimana, e forse fino alla fine della sessione, il 30 novembre, per protesta contro il comportamento del partito del presidente, il National Congress Party, che ignorerebbe sistematicamente le richieste dell’Spla, rendendone inutile la partecipazione alle attività parlamentari.
Qualche giorno prima, malgrado gli inviti al dialogo di al Bashir, il partito del sud, insieme ad altre formazioni all’opposizione, aveva minacciato il boicottaggio del voto se entro la fine dell’attuale sessione parlamentare non saranno varate alcune leggi a garanzia delle libertà civili e politiche. L’Splm inoltre chiede una riforma dei servizi di intelligence che ne riduca i poteri nel rispetto di quanto previsto dall’Accordo di pace complessivo e dalla costituzione e lo svolgimento di consultazioni popolari per consentire anche agli abitanti del Sud Kordofan e del Blue Nile di scegliere il loro futuro status rispetto al governo centrale.
Il clima politico teso è ulteriormente complicato dalla tuttora incompleta e controversa delimitazione dei confini tra nord e sud, importante soprattutto per definire a chi spettano i proventi derivanti dallo sfruttamento dei ricchi giacimenti di petrolio, e dall’intensificarsi della conflittualità endemica tra etnie in lotta per il controllo di pascoli e sorgenti che di recente, nel sud, ha registrato gravi scontri con numerose vittime tra le etnie Dinka e Nuer.