David Cameron, il premier in bicicletta che ha rivoluzionato i Tory
09 Agosto 2010
L’11 maggio 2010 i conservatori inglesi sono ripartiti lì da dove tutto era iniziato, negli anni ‘70, con la vittoria di Margaret Thatcher e hanno varcato, dopo 13 anni di governo laburista, la porta del 10 di Downing Street. Telegenico e pragmatico, all’età di 43 anni, il Tory David Cameron è divenuto il più giovane Primo Ministro del Regno Unito dai tempi di Lord Liverpool, nominato nel 1812.
Ma questo non è il solo primato detenuto dal leader del Conservative and Unionist Party. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il Regno Unito è retto da un governo di coalizione: Cameron ha, infatti, conquistato la poltrona di Prime Minister strappando un accordo alla testa di ponte dei Liberaldemocratici, Nick Clegg. Le circostanze che hanno portato a questa svolta storica made in Uk sono state la resa dell’inossidabile ed imbronciato Brown che, dopo vani tentativi di agganciare l’astro nascente della politica inglese, ha annunciato l’abbandono della guida dei Labour, e il risveglio “strozzato” degli inglesi il 7 maggio, che alla fine della generale tornata elettorale si sono ritrovati con uno “hung Parliament”, un Parlamento in cui nessun partito gode di una maggioranza assoluta.
David Cameron portando a casa 306 seggi su 326 (risultato del tutto rispettabile poiché ha rappresentato il miglior esito dal 1992, l’ultima volta che i conservatori avevano vinto), non ha ottenuto la maggioranza assoluta che gli avrebbe assicurato la vittoria. Per questo, dopo giorni di turbolenti trattative, si è affacciato al 10 di Downing Street annunciando l’accordo Lib-Dem/Tory benedetto dalla Regina Elisabetta, all’insegna della “freedom, fairness and responsibility” (libertà, giustizia e responsabilità). Il testo del deal – incentrato su 11 nuclei: riduzione del deficit, revisione della spesa pubblica, fisco, riforma bancaria, immigrazione, riforma politica, pensioni e assistenza sociale, istruzione, rapporti con l’Unione europea, diritti civili, ambiente – si può definire un piccolo monumento al pragmatismo anglosassone; su una serie di temi delicati Cameron e Clegg hanno concordato che da un lato sarà consentito ai liberaldemocratici di astenersi (non votare contro) senza conseguenze per il governo, dall’altro sarà consentito alla forza dei numeri di imporsi (ricordiamo che i liberaldemocratici apportano alla coalizione i necessari ma miseri 57 seggi). Nella politica inglese non si sentiva parlare più di un formato del genere dall’epoca della grande coalizione di solidarietà nazionale, guidata da Churchill, ai tempi della guerra del 1939-1945.
Cameron è diventato, attraverso questo “pasticcio all’inglese”, la chiave di volta della sospirata rinascita di una Gran Bretagna svilita dalla crisi economica, confusa e alla ricerca dei propri valori, a cominciare da quello di uno Stato sociale capace di provocare nei suoi cittadini l’orgoglio di sentirsi tali. Lo è diventato anche sfruttando lo scandalo dei rimborsi spese gonfiati dei parlamentari, presentandosi come un “riformatore radicale” in grado di “ripulire” letteralmente la classe politica (anche se, al cospetto delle pragmatiche necessità di un Paese che registra il debito pubblico più alto tra quelli del G20, è stato costretto a sostituire il suo iniziale messaggio di ottimismo con una retorica più sobria e persino austera).
Figlio di un agente di borsa e di un giudice di pace originari di Inverness, in Scozia, David Cameron ha conquistato il titolo di Prime Minister alla stessa età in cui Blair vinse nel 1997. Da rampollo dell’alta borghesia britannica ha, come da prassi, studiato nella prestigiosa scuola privata di Eton e successivamente ha approfondito i suoi studi di filosofia, politica e economia a Oxford, uscendone con una laurea first class honour. Proprio a Oxford Cameron ha coltivato amicizie che si sono rivelate poi salde, come quelle che lo legano all’attuale sindaco di Londra Boris Johnson e a George Osborne, oggi cancelliere ombra dello scacchiere e personaggio tra i più influenti del suo inner circle. All’apparenza un tipico toff (termine colloquiale e dispregiativo con il quale vengono etichettati gli aristocratici delle classi elitarie), ma neanche troppo: per sette anni ha presieduto il consiglio di amministrazione di Carlton Communication, un gruppo di produzioni televisive e pubblicitarie. Un percorso, quindi, del tutto distaccato dalla vita della grande aristocrazia britannica.
Prima l’esperienza lavorativa come ricercatore, all’età di 18 anni, per Tim Rathbone (deputato conservatore), poi il lavoro come ricercatore al Conservative Research Department e, ancora, l’ingresso nello staff del premier John Major, sono state terreno fertile per la nascita della sua passione per la politica e la vicinanza ai Tories e hanno dotato Cameron di un solido background, tale da smentire chi lo considerava uno sprovveduto senza arte né parte. La sua carriera ha preso il volo velocemente e nel 2001 è diventato membro del Parlamento per Witney, un collegio elettorale dell’Oxfordshire.
Per Cameron la famiglia ha rappresentato il punto di partenza per tutto ciò che ha voluto ottenere in politica. È fiero e porta avanti i valori che gli sono stati istillati quando era ragazzino. Sa perfettamente quanto è importante la qualità del tempo speso con i propri genitori ed è proprio per questo che una delle priorità nella sua agenda politica è sempre stato il congedo parentale. Cameron ha sposato Samantha Gwendoline Sheffield, figlia di Sir Reginald Adrian Berkeley Sheffield, VIII baronetto, e di Annabel Lucy Veronica Jones, il 1 giugno 1996 e da lei ha avuto tre figli, attualmente ne aspettano un quarto. E la ferita più dolorosa e profonda che gli si potesse infliggere ha riguardato proprio la sua famiglia, quando il primogenito Ivan Reginald Ian, sofferente sin dalla nascita di paralisi cerebrale e di una rara forma di epilessia (la sindrome di Ohtahra) è morto alla tenera età di 6 anni.
È stato lui a voler immediatamente mostrare il volto del ricambio generazionale di un Partito, quello conservatore, considerato sempre più espressione di idee sociali superate, rendendolo aperto alle sfide di una società high-tech, globalizzata, multietnica. In seguito alle tre sconfitte elettorali consecutive (1997, 2001, 2005) subite ad opera del Partito Laburista di Tony Blair, David Cameron si candida e vince nella lotta per la leadership nel dicembre del 2005, grazie soprattutto al suo stile personale, ottimista e informale. Come ha dichiarato in un meeting: “Perché sono qui? Perché penso che il modo in cui stiamo facendo politica in Gran Bretagna è noioso e antiquato”. Probabilmente si riferiva proprio alla sua mission nel partito.
Ben consapevole della tradizione di cui si fa portatore, e condividendone i valori fondativi, il nuovo leader britannico si spinge oltre il tatcherismo, svecchiandone l’immagine: “Non siamo più negli anni Settanta”, ripete spesso. Parla di “giustizia sociale” (lui che viene dalla upper middle class), vuol combattere il global warming (“The planet first, politics second”), ed è cosciente del fatto che in un contesto economico come quello che stiamo vivendo non sarà certamente facile abbassare le tasse, anche se dice di volerlo fare. È obamiano nel senso più profondo del termine: per governare sa benissimo che è necessario conquistare l’elettorato moderato, l’architrave di 13 anni di ininterrotto governo laburista, ma, allo stesso tempo, sa rassicurare il suo elettorato tradizionale (ha promesso, per esempio, di muoversi verso una privatizzazione del sistema sanitario nazionale).
Non senza critiche e polemiche, ha adottato molte idee fino ad poco tempo fa associate ad un’altra Gran Bretagna, più moderna, vedi il totale abbandono di riferimenti discriminatori verso minoranze sessuali, le politiche ambientali più responsabili e sostenibili (ricordiamo uno dei progetti più importanti di Cameron e dei Tory riassunto dallo slogan “Can I Have The Bill?”, una proposta di legge consiste nell’istituzione di una commissione indipendente per la valutazione e l’attuazione di azioni concrete per la riduzione del consumo di anidride carbonica del 60% entro il 2050), e la possibilità di legalizzare le droghe leggere e la difesa della sanità pubblica. Tutte proposte che ha messo, tra l’altro, sul tavolo per le elezioni di maggio.
Insomma, potremmo definire il “brand new PM” un conservatore in salsa liberal – da intendersi all’inglese, non all’americana. Ed è proprio grazie alla sua elezione a capo del partito che, dopo anni di traversata nel deserto, i Tories hanno raccolto sempre maggiore consenso. Proprio per merito di queste operazioni di sdoganamento, come ha scritto Kieron O’Hara in un ritratto di Cameron (After Blair. David Cameron and the Conservative Tradition), il partito conservatore ha riconquistato la facoltà di essere ascoltato dalle classi medie uscendo di fatto dalla nostalgia thatcheriana e assumendo alcuni temi classicamente blairiani come punti condivisi del discorso pubblico.
In quest’ottica revolutionary (in cui un ruolo fondamentale è giocato dalle sue qualità di di abile sfruttatore dei media e fine conoscitore del marketing della politica) Cameron sostiene che l’Inghilterra deve sì ritrovare la sua identità nazionale, ma senza discriminare le etnie presenti nella nazione che tuttavia non possono pretendere di creare società parallele a quella inglese con la scusa di mantenere le loro tradizioni. Per il neo-Primo Ministro l’integrazione vista come società multiculturale è superata, e bisogna tornare a studiare il fenomeno imponendo a chi entra in Inghilterra lo studio della lingua, delle tradizioni e del diritto comune nonché delle religioni praticate dagli autoctoni, pretendendo reciprocità di conoscenza e di rispetto, e che pertanto la Carta dei Diritti Umani europea deve essere adeguata alle esigenze di identità di ciascuno stato aderente all’Unione.
In riferimento alla politica estera, il Partito Conservatore non intende partecipare ad un’Europa in antitesi con gli Usa, per ovvie ragioni sia tradizionali, sia economiche che di carattere militare; quello che ha intenzione di fare è mantenere quello spirito democratico che ha permesso alle nazioni europee, che proponevano modelli alternativi alla democrazia, di inserirsi nel campo democratico e di prosperarvi. Una delle sue mission in ambito europeo è sostenere l’adesione della Turchia all’Ue, partner strategico in Medio Oriente. Riguardo la delicata questione dell’Afghanistan, proprio in occasione del suo recente primo rendez-vous ufficiale con Barack Obama, Cameron ha annunciato un ritiro delle truppe britanniche entro il 2011 o addirittura prima di quella data se dovessero esserci “le condizioni sul territorio”, dato il fardello del costo delle operazioni militari per il governo britannico, che ha raggiunto (assieme a quelle in Iraq), negli ultimi nove anni, l’insostenibile cifra di 18 miliardi di sterline.
Rivoluzione insomma, anche e soprattutto se si considera, a livello istituzionale, il piano di tagli alla burocrazia che il premier sta approntando assieme al suo secondo uomo, Nick Clegg. Si tratta di una delle manovre più imponenti della storia inglese, un trasferimento di poteri e competenze dal centro politico alla società civile che porta una sfida esplicita alla burocrazia costituita.
Sono passate soltanto dieci settimane dall’arrivo del giovane leader dei Tory a Downing Street e lui ha già fatto conoscere al mondo il tratto dominante del suo stile politico: il radicalismo, traducibile non in visioni estreme e afflati rivoluzionari, ma nel possesso di idee chiare e ben definite – anche se a volte impopolari. Il Prime Minister in bicicletta pensa anzitutto al risultato. Lui, che parla correntemente la lingua smart del realismo politico, propone (e sogna) la “Big society” – quello che lui ha definito “un enorme cambiamento culturale, in cui le persone la smettono di chiedere ai funzionari pubblici, autorità locali o governo centrale di risolvere i problemi che devono affrontare” – , che fonde il principio della sussidiarietà a uno spirito marcatamente anticentralista, come ricetta credibile per la rinascita inglese e il Paese su cui sventola l’elegante Union Jack sembra crederci.