Dawood Ibrahim, ritratto dell’uomo più pericoloso del mondo
15 Novembre 2008
Questa non è una gangster story di serie B, e nemmeno una sceneggiatura hollywoodiana, benché, d’altro canto, Bollywood l’abbia presa a modello per decine di suoi film. Questa è la storia di un criminale dei nostri giorni il cui potere immenso è pari solo alla crudeltà con cui ha sempre vissuto e ancora vive. Il suo nome è Dawood Ibrahim. È nato in India nel 1955, figlio di un poliziotto e di religione musulmana, la sua parabola di vita non si discosta molto dagli stereotipi cinematografici sulla mafia e sul crimine organizzato, se non per il fatto che quando la scelleratezza esce dagli schermi scendendo fra le strade vere, in mezzo alla gente, non trattiene assolutamente nulla del suo presunto fascino. Ciò che rimane è solo una profonda striscia di prepotenza, sangue, dolore e miseria umana.
Conosciuto con vari nomi, Dawood Ibrahim nell’arco della sua carriera è passato da essere un killer nei bassifondi di Bombay (ora Mumbai) fino a diventare il più importante padrino della storia indiana, attualmente ricercato n° 1 del Central Bureau of Investigation indiano e n° 4 al mondo per l’Interpol. Da giovane lavora al soldo dell’afghano Karim Lala, il fondatore della mafia di Bombay, a sua volta arrivato in India negli anni 40 ed emerso nei traffici illegali dei dock portuali. La gang di Karim Lala fu una delle prime a investire i proventi del contrabbando e dell’estorsione nella nascente industria indiana del cinema, e proprio qui Dawood Ibrahim si fa le ossa cominciando a capire quale sia la via migliore per controllare appieno il mercato dell’illegalità.
Attraverso vicissitudini rocambolesche, in mezzo a omicidi, ricatti, guerre fra bande e corruzioni d’ogni genere, Dawood Ibrahim si trasferisce a Dubai, da dove coi suoi fratelli sviluppa una rete sempre più colossale di affari internazionali, principalmente fra Emirati Arabi, India, Pakistan, Afghanistan. Secondo il più collaudato metodo mafioso, i business del boss iniziano ad articolarsi su una duplice direttrice: a un piano segreto brulicano le operazioni criminose, come il contrabbando d’armi, e sulla facciata appaiono le imprese legali, come quelle legate al mondo delle costruzioni o alla Hawala. Quest’ultima, in realtà, è un sistema al confine con la legge, e spesso fuori da essa, per trasferire rapidamente denaro estero su estero bypassando ogni controllo bancario; usato da milioni di emigrati musulmani in tutto il mondo, è un veicolo impressionante di copertura per il riciclaggio e per il finanziamento di attività terroristiche.
Ritornato a Bombay da uomo potente, Dawood Ibrahim in poco tempo convoglia su di sé ogni possibile attività criminosa, dalle estorsioni al mercato della droga, legandosi a doppio filo coi Servizi segreti pakistani e coi talebani afghani. Negli anni di massimo splendore la famiglia di Dawood conta su un patrimonio di 430 milioni di dollari nella sola Bombay, compresi grandi investimenti immobiliari. Il padrino vive in una reggia bianca di 7000 mq, temuto, odiato ma follemente amato dai suoi protetti. Nella sua villa faraonica si sveglia sempre al pomeriggio, nuota nelle sue piscine, e solo dopo essere stato servito di tutto punto e aver fatto colazione comincia a ricevere i suoi stretti collaboratori per dirigere l’impero della D-Company, come viene chiamata la sua organizzazione criminale.
Di appetiti sessuali incontenibili, è costantemente circondato da top-girl d’ogni nazionalità e ragazzine vergini, che gratifica con cifre cento volte superiori ai “prezzi di mercato”. I politici lo corteggiano, una nota attrice gli partorisce un figlio e nessuno rifiuta un invito ai suoi lussuosissimi party. Durante questi anni la D-Company convoglia gran parte dei proventi illeciti nell’industria di Bollywood, come da tradizione; infatti all’epoca la legge indiana non prevedeva ancora l’intervento pubblico dello Stato nelle produzioni cinematografiche, che restavano così in balia dei soli finanziamenti mafiosi.
Il salto di qualità politico nelle sue attività, Dawood Ibrahim lo raggiunge nel 1993. Alcuni fondamentalisti indù distruggono l’importante moschea di Babri Masjid ad Ayodhya; ne seguono a Bombay scontri violenti tra la comunità islamica e quella indù, quest’ultima fomentata dagli sciovinisti dello Shiv Sena: il risultato è il massacro di centinaia di musulmani. A quel punto l’affronto per il padrino è intollerabile: nella sua città, i suoi fratelli islamici vengono colpiti e trucidati proprio sotto i suoi occhi, un’offesa che rischia di fargli perdere tutto il prestigio di una vita. Così lui, che non ha mai guardato in faccia a nessuno per i propri affari, taglieggiando le sue vittime indipendentemente dalla religione e dalla nazionalità, si trova a dover prendere le difese dei suoi correligionari. Aiutata dai servizi segreti dell’islamico Pakistan, la D-Company dopo poche settimane organizza a Bombay uno dei più feroci attentati della storia dell’India: il 12 marzo del 1993 una serie di ordigni, piazzati in alcuni luoghi strategici di questa megalopoli sul Mare Arabico, uccidono 257 persone e ne feriscono 713. Gli attentatori erano stati assoldati nella stessa Bombay dalla D-Company, portati via Dubai in un campo di addestramento pakistano e quindi riportati a Bombay via Dubai.
Da quel momento Ibrahim, nonostante gli appoggi corrotti, perde l’immunità in India, viene iscritto negli elenchi dei ricercati dell’antiterrorismo internazionale, e si vede costretto a fuggire prima in vari Stati del Golfo Persico, poi a Karachi, in Pakistan, dove può contare sulla complicità di quella losca banda di delinquenti e cospiratori che sono i vertici dell’ISI, l’Inter Service Intelligence, ossia i servizi segreti pakistani. Sì, perché sebbene l’India non gli abbia perdonato l’assassinio di centinaia di suoi innocenti concittadini, la fortuna del padrino continua a prosperare grazie alla rete di interessi in cui la D-Company è immischiata. Al Qaida in Afghanistan e i terroristi islamici in Medio Oriente hanno bisogno di armi, i talebani controllano la produzione della droga, la D-Company si interpone per gestire i trasporti di entrambe le merci, lucrando in modo esponenziale su tutto. Un rapporto ufficiale statunitense alla fine degli anni 90 afferma che «l’organizzazione di Ibrahim è coinvolta in un vasto traffico di stupefacenti verso la Gran Bretagna e l’Europa. Le rotte del contrabbando passano per l’Asia del Sud, per il Medio Oriente e per l’Africa e vengono gestite assieme a Osama bin Laden e al suo gruppo terroristico. Alcune delle vie utilizzate negli anni da Ibrahim sono state successivamente cedute ad Al Qaida e tra le due organizzazioni sono intercorsi accordi finanziari per gestire il traffico. In questo periodo Ibrahim viaggiava in Pakistan sotto la protezione dei talebani». La longa manus della D-Company arriva sino in Italia, rifornendo di cocaina le cosche siciliane e napoletane.
Nel frattempo si consolida il progetto dell’ISI di sfruttare l’organizzazione del padrino indiano per sovvenzionare, gestire, e fomentare i vari gruppi di terroristi islamici sparsi in Asia, combattendo la guerra sotterranea (guerra di bassa intensità, come viene definita dagli strateghi) contro l’India. La mano di Ibrahim è dietro perfino al prestito di denaro al governo pakistano per acquistare sottobanco tecnologia nucleare dalla Cina e dalla Corea del Nord. Il paradosso è che se gli estremisti indù non avessero attaccato gli indiani musulmani, probabilmente Ibrahim avrebbe continuato a fare il boss della droga e delle estorsioni in India, senza trasformare la sua gang in uno dei peggiori e più potenti gruppi terroristici di matrice islamica del pianeta, strettamente legata ad al Qaeda e Laskhar-e-Toiba (l’Esercito dei puri). Dopo l’11 settembre e gli attentati del 2002 in India, tra cui quello di Gujarat, molti dei quali attribuiti alla D-Company, Washington inserisce il capomafia indiano nella lista dei terroristi più ricercati del mondo: questa mossa statunitense causa sorpresa e imbarazzo tra i servizi di sicurezza del Pakistan, degli emirati Arabi Uniti e di paesi come Filippine, Malesia e Singapore, perché queste corrotte agenzie di spionaggio erano abituate a chiudere un occhio sulle attività di Ibrahim. La decisione ha precise ripercussioni politiche, dal momento che l’India, storica nemica del Pakistan, a questo punto si riavvicina agli Usa, accomunati entrambi dai medesimi obiettivi di polizia internazionale e guerra al terrorismo. Dall’altra parte, Islamabad, una delle più fedeli alleate degli Usa nella stessa guerra al terrorismo, deve adesso giustificare una situazione assurda: infatti, circolano voci sempre più insistenti che Dawood viva ricco e indisturbato a Karachi.
Dopo il 2003, però, la vita del padrino non è più semplice come una volta, benché continui a giostrare nell’ombra patrimoni e imprese criminali. Quando la Bhutto ha dichiarato che una volta eletta sarebbe stata pronta a consegnare all’India Dawood Ibrahim, non ha fatto altro che firmare la propria condanna a morte. Ma il personaggio comincia a diventare scomodo, la caccia senza quartiere contro i terroristi scatenata dal presidente Bush dà i suoi risultati, e Ibrahim deve ancora una volta abbandonare privilegi e lussuose residenze per scappare braccato dalla Forze speciali della Cia e dell’intelligence indiana. Col suo luogotenente Chhota Shakeel si rifugiano a Peshawar sotto la protezione dei capi tribali fedeli ai Taliban e dopo qualche tempo fanno di nuovo perdere le loro tracce. Nel 2007 le autorità indiane affermano che i due sono in stato d’arresto in Pakistan, ma, alle ripetute richieste di estradizione da parte indiana, Islamabad nega che Ibrahim si trovi ancora nel proprio territorio e, viste le protezioni di cui gode, non è probabile che il governo riesca a sapere dove davvero si trova Dawood, così come non sa dove risiede in questo momento Osama bin Laden. Secondo il settimanale indiano Frontline, «è più probabile che il Pakistan faccia fuori Ibrahim e Sahakeel piuttosto che consegnarli all’India». Secondo le ultime notizie, attualmente Ibrahim si troverebbe in Waziristan protetto, ancora una volta, dagli uomini dell’intelligence pakistana.
In tutto ciò, emerge un dato ancor più sconfortante, se è mai possibile. Andando su internet a visitare chat e forum indiani e pakistani, oppure di indiani e pakistani naturalizzati in Inghilterra, sulla figura del criminale Dawood Ibrahim e sui film ispirati alla sua vita non è difficile leggere post di questo tenore: «è un mito», «è il mio eroe», «lo amo», «è perfino un bellissimo uomo», «voglio essere come lui, voglio lavorare per lui», e via dicendo. E i ragazzi confondono la tragica realtà di delinquenti spietati con un genere letterario, il “Mumbai noir”, dove romanzi popolari raccontano di criminali, bordelli, rapine e sparatorie nei maleodoranti bassifondi di una metropoli tropicale. Ogni commento diventa superfluo.