Ddl Gentiloni: radiografia di una sconfessione

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Ddl Gentiloni: radiografia di una sconfessione

25 Settembre 2007

A sostegno della controriforma televisiva, pensata per fare danni all’italiana Mediaset e portare doni all’australiana Sky, ora in discussione alla Camera, il suo architetto, il ministro Gentiloni, adduce come principale argomento la necessità di allineare la legislazione italiana agli standard europei. Gli scostamenti maggiori sono rilevati su due punti: l’assetto del mercato pubblicitario e la gestione delle risorse tecniche (frequenze) necessarie per trasmettere.

Su entrambi i punti gli argomenti del ministro hanno ricevuto, in tempi recenti, significative smentite da organi dell’Unione Europea. Per quanto concerne la pubblicità, il ddl Gentiloni impone una soglia rigida (il 45%) alle quote di mercato degli operatori: in un contesto di vendite stabili, ciò implica per le imprese un tetto al fatturato e, come logica conseguenza, una riduzione degli affollamenti orari; al contrario il testo di una direttiva, approvata nei mesi scorsi dal Parlamento e dal Consiglio europeo, autorizza nuove tecniche di comunicazione (product placement; split screen) e fissa una quantità di tempo da dedicare ogni ora agli spot che è superiore a quella oggi vigente in Italia.

Sul tema delle frequenze sono in corso due interventi comunitari: il primo è un procedimento di infrazione che è avviato con una lettera di costituzione in mora del 25 luglio 2006 e concerne l’asserita incompatibilità di alcune norme del nostro ordinamento (appartenenti alla legge 66/01, a un regolamento Agcom e alla legge Gasparri) con la disciplina comunitaria relativa alle reti di comunicazione elettronica; il secondo è una pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia dell’Ue richiesta dal Consiglio di Stato italiano in merito a una causa promossa da Centro Europa 7, una delle società vincenti nella gara del 1998 per l’assegnazione delle concessioni televisive, contro il Ministero delle Comunicazioni.

Entrambe le azioni hanno per oggetto il metodo di attribuzione delle frequenze agli operatori e la sua correttezza in relazione ai principi comunitari: il procedimento di infrazione ne contesta la ratio ispiratrice, mentre la pronuncia pregiudiziale si concentra su presunte discriminazioni nell’applicazione denunciate da Centro Europa 7.

La procedura d’infrazione ha fatto ad agosto il suo secondo passo, consistente nell’invio del parere motivato, ed è quindi ancora in fase iniziale: l’eventuale violazione è infatti accertata dalla Corte di Giustizia e la Commissione che conduce l’istruttoria può chiudere in qualsiasi momento la vertenza se lo Stato membro sotto accusa compie atti sufficienti a rimuovere il problema. La procedura della Commissione prende a bersaglio il segmento della legislazione italiana che tratta di risorse tecniche e transizione al digitale terrestre, in particolare la norma secondo cui possono avviare la sperimentazione della nuova tecnica e ottenere le relative autorizzazioni solo gli operatori a vario titolo già attivi nelle trasmissioni analogiche. La Commissione ritiene infatti che la norma da un lato discrimini – in contrasto con l’articolo 9 della direttiva quadro 2002 in materia di comunicazione elettronica – i soggetti non operanti in tecnica analogica i quali non hanno modo di entrare nel mercato, in via di formazione, delle trasmissioni televisive digitali e dall’altro risulti priva di proporzionalità – in contrasto con l’articolo 5 della direttiva autorizzazioni del 2002 – perché “non limita allo stretto necessario il numero di frequenze che le emittenti già presenti sul mercato possono acquistare per sostituire gli attuali programmi in tecnica analogica”.

La norma che la Commissione giudica incompatibile con il quadro comunitario è introdotta dal Regolamento sulla radiodiffusione terrestre in tecnica digitale, approvato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il 15 novembre 2001 in esecuzione di quanto previsto dalla legge 66/2001 (che converte un decreto legge emanato dal Governo Amato), e ha operato per oltre 4 anni senza suscitare alcuna censura (la prima richiesta di informazioni è inviata dalla Commissione il 12 dicembre 2005), agevolando anzi lo sviluppo delle trasmissioni digitali terrestri: negli ultimi anni sono infatti entrati nel settore televisivo, come operatori di rete su scala nazionale, tre nuovi soggetti (D-Free, l’Espresso, H3G) che hanno costruito altrettanti blocchi di diffusione digitali (altri newcomer hanno realizzato reti in ambito locale). I nuovi ingressi sono stati numerosi, nonostante l’avviso contrario della Commissione, perché in Italia esiste un gran numero di piccole emittenti locali (poco meno di 600) che si possono acquisire senza difficoltà e diventano così un comodo biglietto d’entrata nel mercato digitale.

Il ministro Gentiloni pretende che il suo disegno di legge costituisca la risposta alle censure della Commissione in quanto, all’articolo 3, dispone che Rai e Mediaset trasferiscano ciascuna su piattaforme digitali la propria terza rete analogica le cui frequenze saranno “cedute a condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie ai soggetti che ne facciano richiesta”. Inoltre il Ministero prevede di incamerare e poi ridistribuire con i criteri già enunciati altre frequenze ritenute “ridondanti” per gli scopi di copertura di un dato territorio (articolo 3 comma 1).

Tuttavia il parere motivato dalla Commissione riconosce nella sua parte finale tre punti di grande rilievo che inficiano la costruzione del disegno di legge:

1. “sebbene le autorità italiane (cioè il Ministero retto dall’on. Gentiloni che avrebbe il dovere di difendere la legislazione del suo Paese; ndr) non abbiano indicato alcun obiettivo di interesse generale che possa essere perseguito precludendo a nuovi entranti la possibilità di acquistare frequenze per la realizzazione di reti digitali, dal contesto della legge si può presumere che tali misure (quelle oggetto della procedura d’infrazione; ndr) siano destinate a rispondere all’esigenza di consentire agli operatori in tecnica analogica già in attività di effettuare il passaggio alla radiodiffusione in tecnica digitale”;

2. tale passaggio “rientra nella politica della Comunità per il settore audiovisivo ed è anzi esplicitamente menzionato al considerando 18 della direttiva quadro come giustificazione di un’eventuale deroga”

3. per tale ragione un complesso di misure in grado di “garantire una transizione agevole dalle trasmissioni in tecnica analogica a quelle in tecnica digitale può essere considerato di per sé un obiettivo di interesse generale” che integra “l’eccezione di cui all’articolo 4, paragrafo 1 della direttiva sulla concorrenza” in base alla quale sono lasciati “impregiudicati i criteri e le procedure specifici adottati dagli Stati membri per concedere l’uso di frequenze radio a fornitori di servizi”.

Nelle conclusioni quindi la Commissione circoscrive la portata delle sue censure e dichiara che “simili eccezioni (cioè quelle a favore degli operatori già attivi in tecnica analogica; ndr) sono ammissibili a condizione che la durata del periodo di transizione (switch-over) sia ragionevole e che sia adeguatamente regolamentata la restituzione delle frequenze in tecnica analogica dopo la data dello switch-off”.

Questa posizione, che colora di cautela i passi della Commissione, smentisce uno degli argomenti (“adeguarsi all’Europa”) che motiva l’impianto così aggressivo del ddl Gentiloni e dimostra quanto nel concreto siano fuori misura le sue norme: esse infatti da un lato eccedono largamente le richieste avanzate in sede Ue e dall’altro, sul piano operativo, non sono atte a soddisfarle. Il ddl infatti espropria frequenze ai due maggiori operatori durante il periodo di switch-over, ma non le vincola a un uso digitale e anzi lascia ampio spazio per un loro sfruttamento in tecnica analogica (articolo 3 comma 5) producendo così effetti negativi a cascata:

a. Non agevola anzi restringe l’accesso di nuovi soggetti alle trasmissioni in tecnica digitale (obiettivo che guida le considerazioni della Commissione nel parere motivato);

b. Non consente di creare le condizioni per attuare una pianificazione digitale; rende quindi aleatoria la data del novembre 2012 come termine finale di esercizio per le trasmissioni analogiche;

c. Viola i principi di non discriminazione (i nuovi entranti sono penalizzati dall’incertezza relativa alle modalità di passaggio al digitale) e di proporzionalità (poiché  non favorisce l’ingresso di nuovi operatori nel mercato delle trasmissioni digitali, l’esproprio dei market leader non è proporzionato a obiettivi di interesse generale consistenti, ad esempio, nella promozione di tecnologie innovative della comunicazione). 

Un ministro che avesse a cuore l’interesse nazionale e volesse realmente evitare i danni d’immagine che procura il prolungarsi della procedura d’infrazione non dovrebbe fare altro che cogliere al volo i suggerimenti, per nulla occulti, contenuti nel parere della Commissione (basta un decreto con poche abrogazioni mirate); al contrario l’on. Gentiloni, cui difetta il senso del grottesco ma non la faccia tosta, fa pressioni sul Presidente della Camera per chiedere – quale rimedio all’istruttoria comunitaria e all’ipotetica multa che ne può seguire – l’esame di un disegno di legge che non serve affatto allo scopo e anzi lo allontana.

Quanto alla causa promossa da Centro Europa 7, che dal 1998 chiede di ricevere dal Ministero una provvista nazionale di frequenze come dote complementare della concessione vinta, a settembre l’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha presentato le sue conclusioni (egli agisce come amicus curiae, in nome del diritto e dell’interesse generale). Per giustificare la propria richiesta di pronuncia, il Consiglio di Stato, cui l’emittente (virtuale) si era rivolta dopo il rigetto del proprio ricorso da parte del Tar Lazio, aveva presentato alla Corte di Giustizia una lunga e variegata lista di quesiti contenenti dubbi circa la congruenza della legislazione italiana in materia di pluralismo informativo e concorrenza televisiva con i principi comunitari.

I dubbi del Consiglio di Stato ripetono i concetti di fondo del ddl Gentiloni: il pluralismo televisivo coincide con una varietà di operatori non troppo grandi e dalle dimensioni similari; la distribuzione delle frequenze attraverso meccanismi di mercato rafforza i market leader e quindi riduce la concorrenza; il passaggio al digitale terrestre, che apre uno scenario televisivo potente e innovativo, può garantire pluralismo e varietà competitiva se la legislazione riesce a sterilizzare le funzioni di mercato nell’allocazione delle risorse tecniche e affida tale compito al Ministero.

L’Avvocato generale smonta uno per uno i quesiti del Consiglio di Stato che non sono considerati tali da meritare un giudizio entro il quadro comunitario: sono “irricevibili” o “inammissibili” o espressi con una “formulazione purtroppo sotto molti aspetti problematica”; il punto di fondo è che il sistema di norme con cui in uno Stato membro è assicurato il pluralismo informativo costituisce materia di diritto interno e solo in condizioni straordinarie assume pertinenza comunitaria. L’unica questione che acquista rilievo concerne il nesso fra la concessione, che equivale a un diritto di diffusione, e le risorse tecniche che formano uno strumento essenziale per attuarlo: l’Avvocato generale non sostiene che il nesso sia automatico e obbligato (in altri termini: dalla concessione non deriva, come implicazione logica, anche la fornitura pubblica e gratuita di una provvista di frequenze che consenta di rendere operativo il diritto in essa definito), ma stabilisce con formula alquanto cauta che in sede nazionale occorre “esaminare attentamente le ragioni addotte da uno Stato membro per ritardare l’assegnazione di frequenze a un operatore che ha ottenuto diritti di radiodiffusione”.

E’ appena il caso di ricordare che tali ragioni hanno in Italia un solido fondamento storico: a differenza di quanto è accaduto nel resto d’Europa, la distribuzione delle frequenze fra i diversi operatori in Italia non è mai stata definita dal Ministero, ma è il risultato, più volte ratificato dai giudici amministrativi, di fatti compiuti e di accordi – espliciti o impliciti – fra le emittenti. E’ uno stato di cose che deriva dal modo peculiare con cui in Italia è nata la televisione commerciale e il mercato si è opposto, infrangendolo, al monopolio: non tanto – come in Francia, Spagna o Regno Unito – una selezione, effettuata dal Governo, di operatori privilegiati cui si sono conferiti insieme titoli concessori e frequenze quanto lo spontaneo affacciarsi sul mercato di imprenditori del video che hanno trovato da sé – o sfruttandole in quanto inutilizzate o acquisendole da terzi – le risorse tecniche necessarie per trasmettere. Fin dall’inizio le frequenze, che in altri Paesi sono considerate un bene pubblico e una volta assegnate appaiono intangibili, sono oggetto di scambio e formano un mercato. E’ solo con la legge 66 e con il successivo regolamento 2001 dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che lo stato di fatto si formalizza, sia pure con il vincolo di una destinazione d’uso (il trading è ammesso solo per le risorse da impiegare in tecnica digitale).