Default e isolamento, Atene non tiri troppo la corda
18 Giugno 2015
Non è chiaro come andrà a finire la partita che si sta giocando tra Atene e le istituzioni europee ormai da quasi cinque mesi. E’ probabile che alla fine, magari poco prima della scadenza del trenta giugno, un’intesa verrà raggiunta anche perché a nessuno conviene il fallimento dei negoziati. Tuttavia, visti i toni non certo concilianti e la distanza che separa le due parti, non si può nemmeno escludere l’ipotesi che la Grecia vada incontro al default. Ma quali sarebbero le conseguenze sul piano economico, politico nonché strategico visto che Atene non è solo membro dell’Unione Europea ma anche della NATO ?
Dal lato economico, come ha ricordato ieri il Governatore della Banca centrale ellenica Stournaras, le conseguenze per il Paese sarebbero devastanti, in quanto all’uscita dall’Eurozona si aggiungerebbe anche il probabile abbandono della Grecia dalla stessa Unione Europea. Appena introdotta, la nuova Dracma perderebbe difatti almeno il 40–50% del suo valore, provocando così un’impennata dell’inflazione che diminuirebbe il potere d’acquisto dei salari della stessa entità.
Ma non sarebbe questo l’aspetto più negativo. Senza l’accesso ai mercati finanziari e privato degli aiuti concessi dalle istituzioni internazionali, la Grecia si troverebbe nell’impossibilità di ottenere valuta pregiata con cui pagare le importazioni delle materie prime e dei prodotti energetici, con la conseguenza che molto probabilmente l’economia andrebbe incontro ad una pressoché completa paralisi. Priva di risorse naturali e di una struttura industriale e con un’agricoltura povera, l’economia greca si regge infatti essenzialmente sul turismo ed i noli marittimi, mentre lo stesso PIL ellenico è generato per due terzi da servivi nei quali la voce più importante è rappresentata dalla pubblica amministrazione, tanto che ancora oggi lo Stato resta il principale datore di lavoro per i greci.
La stessa struttura bancaria greca, che oggi si regge solo grazie alla liquidità d’emergenza fornita dalla BCE ed il cui valore dei depositi ha raggiunto il livello più basso degli ultimi dieci anni vista la massiccia fuga di capitali dal Paese, all’indomani del default crollerebbe completamente dando così un ulteriore duro colpo all’economia nazionale. Il livello di vita ed il reddito dei greci tornerebbe così indietro di decenni, senza contare come lo Stato, in un simile contesto, non sarebbe probabilmente neanche in grado di assicurare i servizi essenziali e le prestazioni sociali.
Sul piano politico, il governo Tsipras potrebbe nell’immediato ricevere un forte sostegno popolare per aver rotto con le istituzioni europee che ormai nel Paese quasi tutti vedono con ostilità, ma subito dopo si troverebbe a fronteggiare delle forti tensioni sociali causate dal massiccio impoverimento a cui andrebbe incontro la popolazione venendo probabilmente costretto a dimettersi. Per ripartire Atene potrebbe puntare sul turismo, ma si tratta di una strada difficilmente percorribile.
Primo perché l’instabilità interna a cui andrebbe incontro il Paese scoraggerebbe gli stranieri dal recarsi in Grecia, secondo per il fatto che nessun Paese incluso fino a poco tempo prima tra quelli indicati come “sviluppati” potrebbe riorientare e basare la sua economia solo sul settore turistico. Così le uniche due soluzioni realistiche che avrebbe davanti la Grecia sarebbero o quella di diventare un Paese autarchico ad economia chiusa e nazionalizzata dove le uniche risorse deriverebbero appunto dal turismo, oppure trasformarsi in una regione in cui gli investitori stranieri potrebbero delocalizzare i loro impianti industriali proprio per i bassi salari che andrebbero a percepire i greci.
Nel primo caso la Grecia diventerebbe una sorta di “Cuba europea”, mentre nel secondo adotterebbe invece il modello degli Stati in via di sviluppo basato sul basso costo della forza lavoro.
Sul piano geopolitico gli effetti, aldilà di quanto alcuni analisti prospettano, sarebbero invece più limitati. E’ vero che una volta uscita dall’Eurozona e dall’Unione Europea, Atene cercherebbe il sostegno internazionale di Mosca e Pechino per rilanciarsi, ma i rapporti con la Russia e la Cina difficilmente potranno trasformarsi in un’aperta alleanza politica. Fin dal suo insediamento Tsipras ha avviato rapporti più stretti con il Cremlino mostrando interesse per far transitare in territorio greco gasdotto “Turkish Stream” sostenuto dalla russa Gazprom, tanto che Atene lo scorso 2 Giugno avrebbe firmato con la Russia un memorandum d’intesa in proposito.
Ma in questo momento Mosca, la cui economia è in forte recessione per il calo del prezzo del petrolio, non appare certo nelle condizioni di poter concedere il suo sostegno finanziario ad Atene, senza contare come le spese del conflitto in Ucraina e dell’incorporazione della Crimea peseranno ancora per molto sulle finanze russe limitando le capacità del Paese.
In quanto alla Cina, Pechino potrebbe elargire un prestito alla Grecia ma con ogni probabilità chiederebbe un ruolo “privilegiato” nell’economia ellenica, ovvero la possibilità di acquisire gli assets e le aziende statali che il governo greco dovrebbe privatizzare. Irrealistico appare poi lo scenario per cui Atene, abbandonata l’Unione Europea, possa lasciare la NATO per allearsi militarmente con la Russia o addirittura la stessa Cina.
Per quanto Putin abbia assunto toni confrontazionali con Washington ed alcune capitali europee, i vertici militari e politici russi sanno bene che arrivare ad uno scontro aperto con la NATO riproponendo in Europa uno scenario da “guerra fredda” avrebbe pesanti negativi per la Russia in primo luogo dal lato economico, mentre riguardo alla Cina, nonostante Pechino abbia incrementato le spese militari, una base navale nel Mediterraneo non avrebbe alcun valore strategico, in quanto per il momento la marina cinese è ben lontano dal disporre delle capacità per operare al di fuori dell’Oceano Indiano.
Resta da vedere se la Grecia possa avere delle soluzioni “alternative” per ridare slancio alla sua economia dopo il default. Ed in proposito molti citano i casi dell’Argentina e dell’Islanda. Ma il primo non è certo un modello di successo, mentre il secondo è una leggenda creata dalla rete e dai tanti pseudo – esperti che girano nelle nostre televisioni. Dopo il default del 2001, l’Argentina è stata esclusa dai mercati finanziari e si è procurata la valuta estera necessaria per pagare le importazioni esportando la soia il cui prezzo aveva raggiunto livelli elevatissimi.
Ma le politiche populiste adottate dal governo peronista hanno portato ad un aumento vertiginoso dell’inflazione, ad una svalutazione del Peso e ad un calo sensibile delle riserve in valuta, scese oggi al livello di guardia. Gli stessi tassi di crescita risultano poi falsati dall’alto tasso di inflazione, tanto che per molti analisti il Paese già da tempo starebbe nuovamente entrato in una fase di profonda recessione. L’Argentina, nonostante abbia compiuto dei passi in avanti, non si è quindi mai ripresa dal default di quindici anni fa.
Riguardo all’Islanda vi è invece poco da dire, in quanto, come detto prima, la presunta “rivoluzione islandese” semplicemente non esiste. L’Islanda non è mai uscita dall’Euro e dall’Unione Europea per il semplice fatto che non vi fa parte essendo membro solo della NATO, non ha mai ripudiato il suo debito pubblico che anzi il governo continua regolarmente a pagare. Dopo il crac finanziario del 2008, l’Islanda ha dovuto richiedere l’assistenza del FMI e le conseguenze del crollo del suo sistema bancario sono state un aumento del tasso di disoccupazione pari a sette volte ed una svalutazione della Corona del 60%, tanto che molti islandesi si sono trovati nell’impossibilità di saldare i loro debiti ed i mutui contratti con le banche quando il tasso di cambio con l’Euro era estremamente favorevole.
In merito al referendum con cui quattro anni fa gli elettori del Paese avrebbero deciso di non rimborsare il debito, va invece fatta una precisazione. La consultazione era stata indetta per decidere se rimborsare o meno i cittadini di Gran Bretagna ed Olanda del valore dei depositi che avevano versato nella “Landsbanki”, un istituto di credito fallito proprio nell’estate del 2008. La proposta è stata effettivamente respinta, ma non si trattava del debito pubblico, ma di depositi ed obbligazioni di una banca privata nei confronti di privati cittadini di due Stati.
Come si vede, soluzioni magiche non esistono. E fuori dall’Europa, la strada per la Grecia sarebbe strettissima se non addirittura impraticabile.