Della protesta universitaria, del furto di futuro economico
01 Dicembre 2010
Prima i tetti. Poi i monumenti. E infine i blocchi a strade, autostrade e stazioni, gli attacchi alle forze dell’ordine. Gli universitari in lotta contro la Gelmini rianimano l’anelito barricadero che aveva da anni in Italia riavvolto mestamente le sue bandiere. Come mai, non hanno dato vita a scontri, blocchi e disordini due milioni di disoccupati? Come mai, nessun segno analogo dalle duecentomila imprese che tra quattro settimane escono dalla moratoria bancaria, col rischio che si apra la morìa per loro e gli oltre due milioni di loro dipendenti? E’ un moto spontaneo quello universitario, è la riproposizione protestataria del passato, o è la fucina in cui si forgia l’identità di una nuova generazione?
Porsi le domande è il minimo, in un Paese che fino all’altro ieri era giustamente e trasversalmente fiero di aver saputo mantenere coesione sociale nella crisi, un giudizio da estendere in realtà pienamente anche alla Cgil, che al di là del fuoco e fiamme dialettico su Pomigilano e sulle deroghe al contratto dei meccanici, è stata in realtà molto responsabile in centinaia e centinaia di crisi aziendali e territoriali, evitando che le legittime proteste prendessero la mano e bloccassero o spaccassero il Paese. Il minimo è anche porsi le domande senza cadere in trappola, quella cioè di guardare alla generazione degli attuali universitari col paraocchi della propria, di generazione. Nel mio caso, quella cresciuta a Torino negli insanguinati e violenti anni 70.
Prima domanda: pesa, la strumentalizzazione politica? Sì e no. Sì, perché le difficoltà innegabili e crescenti dell’esecutivo Berlusconi, lo sfilarsi dei finiani nei voti d’aula e l’enorme pressione dei media e dei sondaggi sul governo hanno finito per alzare molto la temperatura. E i ragazzi ne hanno fatto tesoro, perché non sono scemi. Chiunque abbia protestato in piazza sa che il limite della manifestazione sta istintivamente in ciò che si avverte nell’aria. Se entrando a forza in Senato sai che potrai contare sul consenso dei media e sul fatto che polizia e magistrati ci andranno con la mano leggera, perché il primo a non potersi permettere l’accusa di nervi saltati è il governo in difficoltà, allora entrerai a forza in Senato. L’indomani, farai ancor di più. Se leggi tutti i giorni su giornali borghesissimi o ascolti in tv che si sta preparando il 25 aprile in Italia, allora il blocco di autostrade e stazioni sarà come il grande atto preparatorio che attesta che c’eri anche tu, a dare la spallata finale all’autocrate. Quest’amosfera ha contato eccome, nelle ultime due settimane, perché la protesta universitaria salisse d’asprezza. Dopodiché, se pensate che dietro la minoranza iperprotestataria ci siano parole d’ordine di partiti e sindacati dell’opposizione, non avete da anni posto piede in un’università italiana. Non è così.
Secondo: è rinata, la mitica unità di studenti e lavoratori? No e sì. Tra gli studenti di oggi e il popolo degli artigiani, commercianti e partite IVA, come delle piccole imprese industriali o di servizi vittime della crisi, c’è una barriera. Fortissima estraneità. Il vecchio cavallo di battaglia dell’unità rivoluzionaria tra libro e chiave inglese è spirato negli anni Ottanta. Non rinasce oggi. Al suo posto, un’alleanza singolare. Per quanto mi riguarda, incomprensibile. Di fatto, gli studenti hanno preso a protestare in coda ai ricercatori universitari, i veri incubatori della fiammata di protesta, da mesi. Sono stati i ricercatori i primi a salire sui tetti. Seguiti dai politici in processione che, per conto mio, sul tetto dovrebbero a quel punto restarci anche sotto la neve, visto che il loro mestiere è risolverli, i problemi, non aizzarne l’insolubilità,siano di ex maggioranza come i finiani o di vecchia opposizione come Di Pietro e il Pd. Di fatto, gli studenti hanno fatto proprio e ripetuto il mantra del no ai tagli all’Università – spariti, ma che importa – e il no dei ricercatori all’idoneità entro tre anni o della massima protrazione di un altro triennio dei loro contratti, perché se a quel punto l’idoneità non si è ottenuta allora si va a casa. Come e perché gli studenti facciano causa comune con chi nell’Università insegna e chiede ancor più che in passato risorse da destinare solo a chi lavora negli Atenei, invece che destinate alla qualità dell’offerta formativa per chi l’Università la frequenta, questo per me è contraddizione e mistero. La vera rivoluzione sarebbe se gli studenti dicessero basta allo strapotere degli ordinari e degli associati nella fallimentare gestione universitaria, mandassero a quel Paese le richieste dei ricercatori per un posto sicuro, chiedessero invece un riesame di merito di tutti i titoli di chi nell’Università pretende di insegnare e fare ricerca. I casi sono due: o gli studenti non le conoscono, le cifre e le responsabilità del disastro universitario italiano figlio di 40 anni di ope legis e di concorsi locali gravati da cordate e cooptazioni nepotistiche, oppure la loro è tutt’altro che rivoluzione. È conservazione bella e buona. Alcuni rettori lo hanno capito benissimo. Dopo aver incassato in Parlamento, dove sono lobby fortissima, belle smussate alla Gelmini in versione originaria che tagliava qualche artiglio ai baroni, hanno aizzato gli studenti alla protesta nel nome dell’autonomia universitaria, com’è accaduto a Firenze. Pessimo paradosso, per i giovani sui monumenti, fare il gioco di coloro grazie ai quali l’Università che frequentano non premia il merito.
Terzo: c’è una nuova identità collettiva, quel senso giocoso e improvvisamente deciso a tutto, di contestazione radicale in nome dell’apparentemente impossibile che da sempre si associa alle proteste giovanili, segnali nella modernità di una grande rottura culturale, dall’Ottocento e dalla rivoluzione romantico-nazionale al 1871 egualitario della Comune parigina, dagli spartachisti a Berlino fino al 1968 e al maggio francese? Guardiamogli bene negli occhi, i protagonisti dei blocchi stradali. Non hanno niente a che vedere con l’idealismo utopico della rivolta anticapitalista di 40 anni fa, non hanno parole d’ordine antisistema da scandire. Quelle sono finite nella tomba del movimento antiglobalista, in un mondo che oggi cresce solo grazie ai Paesi che abbiamo associato vent’anni fa nella globalizzazione: e per fortuna. Ma un senso di estraneità da furto ai loro danni di presente e di futuro, nei protestari c’è eccome. Non sapranno cifre e trend del disastro universitario italiano, perché le proteste non si nutrono di numeri e analisi ma di slogan e obiettivi simbolici da abbattere. Ma capiscono da anni in Italia l’ascensore sociale è bloccato, che il lavoro ipertutelato dei loro padri col cavolo che i più l’avranno mai, che il reddito disponibile di chi saltabecca da un contratto all’altro è all’inizio e resta miserrimo per anni, in moltissimi casi. Che bisogna contare sul patrimonio delle famiglie, elevatissimo rispetto a quello di altri Paesi, ma è pur sempre una vita del cavolo, dire grazie a papà e mamma fino a 40 anni aspettando di ereditare. Non hanno nessun Sartre o Cocteau attuale come libri di formazione, non leggono neanche i giornali e se ne fottono allegramente della società luqida come di ogni altra cristallizzazione socio-politica del disordinato mondo attuale, piegato da vecchie tutele a costo troppo elevato addossate a chi non ne avrà. Ma un futuro diverso da quello che lorio si prospetta sì, batte nelle loro teste come qualcosa da prendersi anche a costo di occupare strade e monumenti. In questo, li capisco. In un paese a crescita da zerovirgola e mentre si alza il costo dell’eurodebito, hanno due volte ragione.
Quarto: che risposta dare. Alla protesta contro un presente grigio, la sinistra ha per storia e vocazione una maggior vocazione. Ma la destra sbaglia, se risponde tornate a casa a studiare. Una sana destra avrebbe dovuto esser presente dall’inizio e naturalmente, nelle università. Per mostrare che il primo avversario è il docente che prende tutto per sé, e il secondo il politico che se lo tiene amico e lo accontenta. Per scandire che i Paesi che spendono di più sono quelli che hanno le Università libere di pagare quanto vogliono, perché assumono i migliori che ti faranno guadagnare di più se riesci a laurearti con loro. Per chiedere più borse di studio per soli risultati ottenuti, e non per i numerini dell’ISEE che sono figli della truffa fiscale iperstatalista e nemica dell’individuo e dei suoi meriti, tipica del nostro Paese. E’ un partiocolare non secondario, per la politica italiana degli anni a venire. La destra universitaria c’era, minoritaria ma combattiva, negli anni Sessanta e Settanta. Oggi, sembra non esserci più. E ci dice come al solito più degli errori dei padri, che delle responsabilità dei figli.
(Tratto da Chicago-Blog)