Della vita, dell’amore e della guerra nella Spagna degli anni Trenta
11 Gennaio 2009
In Spagna impazza la contesa tra chi fruga con rinnovato vigore nella memoria e desidera riaprire i conti (e le fosse comuni) della Guerra civile e chi non vuole decicatrizzare vecchie ferite dopo qualche decennio di sostanziale pacificazione. Intanto, anche al di là dei Pirenei, si moltiplicano romanzi ambientati in quel giro di anni che vide il soccombere della repubblica e l’installarsi del regime franchista. Torna quindi opportunamente in libreria “La piazza del Diamante” di Mercè Rodoreda, scritto nel 1960 e considerato a ragione uno dei gioielli della corona della letteratura catalana.
Rodoreda, nata cento anni fa e scomparsa nei primi anni Ottanta, si impegnò nel conflitto dalla parte repubblicana, occupandosi di propaganda. E visse decenni in esilio (“La piazza del Diamante” nacque a Ginevra). Eppure il suo romanzo, merce rara, fa a meno dell’ideologia. Piuttosto, è il minuto racconto di una vita barcellonese e la storia di un amore strapazzato in eguale misura dalla guerra e dai moti di un animo fragile.
Natàlia sgobba in una pasticceria e fatica a crearsi sogni nel suo modesto tran tran da popolino pudico anni Trenta. Il lavoro, un fidanzato timido, una mamma che non c’è più e un papà che vive di silenzi. A una festa di piazza “gli occhi da scimmietta brillanti” di Quimet la individuano. Le sue mani la allacciano in un ballo che la porterà all’altare, con buona pace del precedente sposo promesso. Un appartamentino da ristrutturare, due figli da crescere, la moto, vermouth e polipetti alla domenica, l’officina di ebanista di Quimet. Ottanta colombi che svolazzano per casa in attesa di trasformarsi in velleitario business avicolo. Un mondo formato mignon che potrebbe anche portare un po’ di felicità se Natàlia non avesse l’angustia di un carattere troppo un rigo sotto, incapace di sottrarsi alle piccole tirannie degli altri.
La guerra si porterà via tutto, il marito arruolatosi nelle milizie repubblicane, i soldi per mangiare, le piccole comodità conquistate con il lavoro. Catalogata come “rossa”, perché moglie di un repubblicano, Natàlia faticherà a rimpannucciarsi in una Barcellona immiserita. Il conflitto armato entra solo di sguincio, con la notizia di una fucilazione in piazza, con la barba mal rasata e la rivoltella di Quimet nei suoi veloci e rari passaggi da casa con qualche provvista ottenuta nelle campagne.
L’ambiente è quello delle vie anonime della Barcellona popolare. Interni con quadri di aragoste e fiori secchi sotto campane di vetro. Sacchi di granaglie davanti alle botteghe dei droghieri e cancellate che chiudono piccoli giardini délabré. Esistenze ingenue e sensibili. “Tutto andava avanti così, con piccoli grattacapi, finché venne la repubblica e Quimet si esaltò e andava per le strade gridando e facendo sventolare una bandiera che non sono mai riuscita a sapere da dove l’aveva presa”. E in quel “Non sono mai riuscita a sapere” c’è il sapore della vita a metà di Natàlia.
Mercé Rodoreda, “La piazza del Diamante”, la Nuova frontiera, traduzione di Giuseppe Tavani, pagine 224, euro 15