Dell’arte di fare i libri (senza scriverli)
21 Dicembre 2008
“A volte pensiamo di avere scritto una bella pagina e forse è soltanto una pagina bella”. Chiunque lo abbia detto aveva ragione. Capita, insomma, che l’oggetto libro sia un’opera meglio riuscita del contenuto che racchiude. E – al di là di certe follie bibliofile che contribuiscono a fare schizzare in alto il valore di un volume più per la sua rarità che per la sua bellezza – esistono editori, meglio sarebbe chiamarli però stampatori, la cui missione è quella di fabbricare con una cura e un’attenzione speciali libri che hanno un valore autonomo rispetto al testo. Artigiani che coi loro torchi, i loro caratteri tipografici, le carte raffinate, gli inchiostri selezionati, le meticolose legature, la scelta delle incisioni da accoppiare alla parola scritta producono libri che somigliano a opere d’arte.
Uno di questi maestri dell’arte della stampa si chiama Franco Sciardelli. Il palermitano Franco Sciardelli. Classe 1933, milanese d’adozione, emigrato in Lombardia nel Dopoguerra. Un editore di riferimento per i libri d’arte e gli amatori di stampe. Le sue “creazioni” sono apprezzate a livello internazionale, libri che – tanto per intenderci – sono esposti al Moma di New York. Realizza volumi di pregio che contengono testi e incisioni, frutto di anni di elaborazione, di ripensamenti, di ricomposizioni.
Sciardelli, che non ha mai perso il suo accento siculo (proviene dallo Sperone, uno dei quartieri più popolari di Palermo), ha gli occhi vivacissimi e l’ironia sempre sulla punta della lingua anche quando lo affligge qualche malanno fisico (“si sopravvive solo se non ci si prende troppo sul serio”); più volte è stato sul punto di essere fottuto dalla nostalgia: «Sono stato tentato di fare fagotto e tornarmene giù in Sicilia. In un’occasione Leonardo Sciascia mi disse ‘statti fermo e non ti muovere’”. E forse per temperare il dolore di stare lontano da Palermo, pur abitando e lavorando a Milano ha vissuto in un bozzolo fatto di siciliani. Accanto al suo studio c’è quello del fotografo bagherese Ferdinando Scianna:“I miei collaboratori e gli scrittori con cui ho avuto a che fare sono in vasta parte siciliani”.
La sua è una storia di emigrazione. Il padre, calzolaio, lascia l’Isola. Ha cinque figli da sfamare. Lui resta con i nonni a Palermo. Poi se ne va anche lui. Giunge all’ombra del Duomo che è un ragazzetto venuto dal Sud con la fissazione di fare il mercante d’arte “così rilevai una cartolibreria in cui tenevo anche quadri e roba del genere. Alla fine mi decisi a seguire un strana strada e incollare due mie passioni: i libri e l’arte”. Da quel momento cominciano i rapporti di Sciardelli con alcuni dei nomi più importanti della letteratura di quegli anni. Leonardo Sciascia, innanzitutto: “Gli scrissi una volta perché avevo in testa un progetto. Lui mi rispose, ma tutto finì lì. Un giorno me lo vidi spuntare in laboratorio…”. Fu un’amicizia che durò sino alla morte dello scrittore. E furono i torchi di via Ciovasso (la vecchia sede della stamperia, ora in via Giannone) che tennero a battesimo alcune opere tirate in edizione limitata dello scrittore di Racalmuto come “La strega e il capitano”, impreziosita da dieci acqueforti di Aligi Sassu, “Il calzolaio di Messina”, “Storia della povera Rosetta”. Fino a una piccola, deliziosa collana di cartelle dal titolo “Contrada Noce”. Piccoli racconti, con una incisione, che portavano il titolo della campagna di Racalmuto tanto amata da Sciascia. Un divertimento a cui si prestarono volentieri molti scrittori amici di Sciascia. Ma altri nomi importanti della letteratura stanno nel catalogo Sciardelli. Da Tabucchi a Sereni, da Consolo a Bufalino. Introvabili, ormai.
E da un “milanese” all’altro, questo doc: Alberto Vigevani, fu uno dei più grandi librai antiquari italiani. Il personaggio era eclettico (morì nel 1999), scrittore raffinato (Estate al lago, Le foglie di San Siro, Fine delle domeniche, e il delizioso La febbre dei libri tutti editi dalla Sellerio) e grande cacciatore di libri rari. A un certo punto della sua vita, agli inizi degli anni Cinquanta, fondò la casa editrice il Polifilo. Uno come lui, era chiaro, alla fine doveva pur decidere quali libri mandare in commercio (perlopiù quelli di cui si era persa traccia o difficilmente reperibili nei normali circuiti delle librerie) secondo il suo particolarissimo gusto. Ed è anche chiara la scelta del nome, il Polifilo, che richiama Aldo Manuzio, forse il più grande stampatore di tutti i tempi, operò tra la fine del ’400 e gli inizi del secolo successivo. Proprio nel 1499 stampò uno dei più bei volumi della storia del libro, l’Hypnerotomachia Poliphili, chiamato appunto il Polifilo.
“Non ho amato i libri solo con le mie, riconosco, disordinate letture – ha scritto Vigevani – ma anche fisicamente: quando erano nuovi anche il loro odore, il loro tatto, la loro presenza, che mi si faceva necessarie e calmava la mia irrequietezza”. La casa editrice continua a vivere e a produrre anche dopo la morte di Alberto Vigevani, sotto le cure del figlio.