“Democrazia del pubblico”, il vento che ha rivoluzionato il modo di fare politica

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“Democrazia del pubblico”, il vento che ha rivoluzionato il modo di fare politica

16 Giugno 2011

Interpretare, o peggio mistificare, per famiglie politiche, il vento di cambiamento che tra elezioni amministrative e referendum ha spazzato il nostro Paese sarebbe un errore madornale. Ad analizzare bene i dati c’è di più, c’è oltre, persino di fronte al conclamato superamento del berlusconismo, che del resto era anche nella fisiologia e nell’anagrafe della sua parabola. 

Il filosofo Bernard Manin ha descritto il cambiamento dal XX al XXI secolo come il passaggio dalla "democrazia dei partiti" alla "democrazia del pubblico" (Bernard Manin, "Principi del governo rappresentativo". Il Mulino 2010). Prima, la rappresentanza si fondava sulla delega ai partiti. I quali promuovevano il rapporto fra le istituzioni e la società. Selezionavano e legittimavano la classe dirigente. Oggi tutto ciò sembra rovesciarsi.

Oggi l’era delle appartenenze e delle fedeltà ideologiche, espresse dai partiti di massa e dalle grandi organizzazioni sociali è finita. I partiti ormai si mostrano nudi di fronte alla società e vedono progressivamente venir meno la propria legittimazione giacché il distacco e al tempo stesso l"autonomia" del cittadino/elettore si è fatto più ampia e palese. Da "fedeli" i cittadini sono divenuti "spettatori" e da spettatori possono persino ed istantaneamente diventare "attori".

Del resto, questo stesso rapporto che mette in discussione la titolarità del ruolo di intermediazione della politica dei partiti, viene logico e naturale come conseguenza della rivoluzione tecnologica e delle comunicazioni, laddove ogni singolo cittadino possiede ora libertà e pluralità di accesso alle informazioni occorrenti a determinare la sua cifra e il suo impegno politico. Partecipazione attiva, mobilitazione collettiva, movimentismo, "sentiment", vento d’opinione, sono tutte parole d’ordine buone per comprendere l’esito delle recenti consultazioni elettorali e, non ultimo, il referendum stesso. Al tempo di Facebook e della massa critica orientata secondo un permanente "voto di opinione", dalla relazione verticale (utilitaristica) si passa alla relazione orizzontale (compulsiva) e la sensazione è che lo spazio che misura la distanza di questa relazione si vada via via accorciando, annullando i segmenti intermedi.

Il cittadino spettatore/attore si appassiona ogni giorno e magari "si indigna". Più difficilmente è portatore di un’identità esclusiva e comunque l’interazione con lo spazio pubblico e con la politica non è più di tipo fideistico né tantomeno negoziale ma è diventato viscerale, irrequieto, turbolento e pertanto  più fugace, intermittente. La "fiducia" personale, infatti, è più instabile dell’ideologia e dell’identità. Svolta rapidamente in sfiducia, in protesta. Da ciò il disincanto, che pervade e alimenta la "società scettica", degenerazione tipica della democrazia del pubblico. La quale, da parte sua, riflette la crescente frammentazione/ramificazione dei luoghi e delle voci del dibattito pubblico.

La democrazia del pubblico misura così una dimensione rinnovata nel rapporto tra politica e tessuto sociale e quindi, e inevitabilmente, tra politica e forme di aggregazione associazione di questo tessuto. Il modello proposto da Bernard Manin di "personalizzazione della relazione di rappresentanza", diventa un paradigma irrinunciabile secondo cui il “pubblico” dei cittadini elettori viene sempre più coinvolto da forme di elaborazione e comunicazione diretta.

Se storicizziamo l’analisi e tariamo il modello Manin sul caso italiano si delinea un quadro di fondo che va oltre l’attuale contingenza ed oltre le appartenenze, in cui insieme agli elementi caratterizzanti del mutamento di paesaggio si possono scorgere l’infondatezza  delle colorature  politicistiche della sinistra e specularmente le foglie ingiallite che segnano l’autunno della stagione berlusconiana. 

Perché è innegabile che quella stagione nei suoi prodromi e nel suo slancio propulsivo originario produsse uno shock non meno dirimente di quello odierno. Lo shock del biennio ‘93-‘94 ha infatti rappresentato in Italia un poderoso attacco alla centralità dei partiti. Nella I Repubblica infatti il soggetto partito dominus del sistema politico, e centro di gravità dell’assetto costituzionale presidiava e permeava  settori rilevanti della cultura e dell’economia, con la conseguenza di aumentare lo spazio d’occupazione sociale nella propria disponibilità. Il meccanismo di integrazione verticale tra istituzioni, partiti e società, basato su criteri clientelistici e di lottizzazione, finiva del resto per costruire un perfetto sistema di conservazione del potere, reso ancora più stabile dalla legittimazione internazionale fornitagli dalla logica della Guerra Fredda.

Rispetto all’iniziativa referendaria e alla riforma elettorale che ne è seguita, tuttavia le forze tradizionali, salvaguardando la clausola di proporzionalità in Parlamento, si sono battute per affievolire la carica di innovazione sistemica. E in quel frangente fu soprattutto la discesa in campo di Silvio Berlusconi e la creazione di Forza Italia come “nuovo politico”, in grado di superare e destrutturare la forma di partito tradizionale in nome di una struttura movimentizia diffusa, a inoculare nel sistema un impulso di modernizzazione misurabile sia nell’investitura diretta di un Premier responsabile del Governo e rispondente agli elettori in quanto tale, sia, e come suo principale effetto, nell’edificare nel nostro Paese l’attuale assetto bipolare dell’alternanza, ricalcante il "modello Westminster". È innanzitutto questo portato di modernizzazione istituzionale a costituire il patrimonio storico dell’epopea berlusconiana e a questo portato si dovrebbe riconoscere quel giudizio equanime evocato giorni fa da Giuliano Ferrara.

Ma se quella dal versante istituzionale è una modernizzazione realizzata e adeguatamente sedimentata diverso è il discorso se si guarda al processo politico e della comunicazione, livelli che sovrapposti rendono la "percezione" di un attore dinnanzi e rispetto al suo pubblico. È in quest’area di analisi che si riscontra un arresto e addirittura un superamento dell’innovazione berlusconiana. Dopo quasi vent’anni, del resto, è chiaro che il nuovo nel riproporsi sempre eguale a se stesso, e secondo i medesimi schemi, viene inesorabilmente fagocitato da ulteriori processi di cambiamento che lo investono sino a farlo sembrare improvvisamente crepuscolare.

Da questo punto di vista il movimentismo delle origini di Forza Italia, e questo vale anche drammaticamente e specularmente per la Lega, che attingeva dalle spinte più fresche e propulsive della società civile pronta ad aggregarsi in comitati spontanei dal basso si è negli anni cristallizzato e, ancora di più dopo la fusione con An, ha finito per creare un apparato ed una nomenclatura autoreferenziale con l’ambizione professata anche in tempi recenti di ricreare un partito pesante di "clientes", tessere e congressi di democristiana memoria. Alla crescente fluidità e allo spazio orizzontale della società che domanda e premia processi di "partecipazione primaria e dal basso " nella formazione della rappresentanza, ha fatto pertanto da contraltare la riproposizione di uno schema di rigidità e di organizzazione gerarchica verticistica e "dall’alto", manifestatasi con asprezza nelle conflittualità d’apparato, nella degenerazione correntizia, e nel riflusso di un certo elitarismo notabilare e "da palazzo".

Ma la politica oltre ad organizzazione è anche comunicazione, e nella "democrazia del pubblico" questa diviene fondamentale per orientarne e recepirne gli umori, tastare e mediarne i bisogni. Anche in questo settore il Cav. agli albori degli anni Novanta ha rappresentato l’avanguardia italiana. Nel recepire ed evolvere il fenomeno di personalizzazione e di centralità della leadership carismatica anche in Italia, laddove da De Gaulle a Mitterrand, da Roosevelt a Reagan, nel resto del mondo questa centralità, corroborata da forme di governo ad essa funzionale, si imponeva rispetto al “kratos” dei partiti, Berlusconi ha per tanti anni guidato il mutamento tanto da fare confessare ad un insospettabile come Ginsborg che “Berlusconi sarà tanto studiato nel futuro e si dirà che è un uomo eccezionale, che è un innovatore che ha fatto nel suo modo”. È stata la forma di comunicazione della politica, il suo modo di mediare la società ed interagire con essa, dalla mobilitazione alla rappresentanza, ed essere profondamente rivoluzionata.

Ma anche il modello vincente di comunicazione frontale e mediatica, vero campione del berlusconismo, si è infine rivelato stantio al cospetto dell’avanzamento del networking orizzontale, della "condivisione" reticolare delle informazioni, della partecipazione "real time" al processo di creazione e trasmissione del pensiero anche e soprattutto orientato in senso pubblico. Come è stato registrato da più voci è stata la televisione, con il suo "monologo" e con i suoi cliché, a scoprirsi vecchia e a segnare il passo dinnanzi all’avanzata dei "new comers" di Fb che hanno erto il web a moderno agorà, luogo simbolo, della campagna referendaria.          

Con queste lenti, o comunque anche con queste, allora viene più interpretare i più recenti sviluppi dell’attualità attraverso dinamiche che hanno certificato trasversalmente un’evidente distanza tra forma politica tradizionale e mutamenti sociali e di partecipazione pubblica in atto. E’ l’affermazione di un modello di mobilitazione “calda” "diffusa" e "immediata" che tende a scavalcare ogni spazio di intermediazione, dove la leadership carismatica non potendo più permettersi di essere "mediata" né "mediatizzata" dovrà piuttosto presentarsi come "primus inter pares" con la propria base, non come "eletto" ma come "speaker" in grado di testimoniare la tensione e il sentimento di afflato comune che in maniera carsica attraversa la collettività diventandone al tempo stesso specchio e fattore.