Democrazia e Libertà: perché l’Italia è entrata nell’Alleanza Atlantica

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Democrazia e Libertà: perché l’Italia è entrata nell’Alleanza Atlantica

04 Aprile 2009

C’è una frase che dà un senso strategico a quanto accade all’Italia negli ultimi anni del secondo dopo guerra: «L’Italia che esce dalla seconda guerra mondiale è l’impotenza fatta persona», scrive il professor Brunello Vigezzi. È senz’altro la parafrasi, politicamente scorretta, di quanto Alcide De Gasperi, protagonista assoluto di quegli anni, afferma nel suo intervento alla Conferenza di pace di Parigi: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me».

Ripercorriamo, allora, a sessanta anni dalla firma del Trattato che dà origine all’Alleanza Atlantica, quanto si verifica in quella fase della nostra politica estera, dove sulla scena internazionale l’Italia si ritrova a essere, al contempo, sconfitta e protagonista.

Se la disfatta in guerra non consente in alcun modo di essere ottimisti verso un rapido ritorno dell’Italia alla sua naturale collocazione internazionale, l’Occidente, le scelte operate da De Gasperi, in particolare nella formazione dei governi di cui sarà a capo, riescono a raggiungere l’obiettivo di inserire il nostro Paese nell’alveo delle democrazie liberali.

Tra le figure di rilievo che affiancano De Gasperi ricordiamo, in primis, il conte Carlo Sforza, ministro degli Esteri, che conserverà l’incarico sino alla firma del Trattato. Esule negli Stati Uniti durante il regime, ricorda così nelle sue memorie quegli anni difficili: «Al diritto armistiziale abbiamo opposto la tenacia impareggiabile della nostra gente e il suo spirito di resurrezione materiale e spirituale». Grande merito per la ricomposizione del rapporto tra Italia e Stati Uniti negli anni postbellici, va poi tributato ad Alberto Tarchiani, nostro legato a Washington. Al termine del viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti del gennaio 1947, Tarchiani concludeva: «Sia queste accoglienze che le entusiastiche manifestazioni delle masse italo-americane hanno conferito alla visita il carattere di evento, direi quasi storico, che chiude definitivamente il deprecato, tormentato periodo di una guerra insana e inizia una nuova fase di sempre maggiore amicizia tra le due nazioni, basata sulla fiducia reciproca e sul mutuo rispetto».

Leggendo le cronache, gli scritti, e guardando le testimonianze visive relative al viaggio, sono sostanzialmente due i successi che possono essere attribuiti a De Gasperi. A onor del vero, molto andrebbe ascritto all’azione di lobbying della comunità italo-americana, e non solo per la mera riuscita del viaggio, ma per l’importanza del ruolo svolto in seguito nella ricomposizione dei rapporti tra i due Paesi. In primo luogo, De Gasperi ottiene un prestito di oltre centocinquanta milioni di dollari, che è una vera boccata d’ossigeno per l’agonizzante economia italiana. In secondo, comincia a concretizzarsi l’idea di realizzare un fronte comune antisovietico e anticomunista, con una strategia comune da rendere operativa, sia nei rapporti bilaterali che in quelli multilaterali. “Taking off the gloves”, osserva J.E. Miller, storico americano, riferendosi alla necessità di un’ingerenza diretta degli Stati Uniti negli affari interni italiani per impedire che il Paese cada sotto l’influenza sovietica.

Alla scelta atlantica De Gasperi è costretto proprio dall’atteggiamento di Mosca, che punta a portare l’Italia sotto la sua egida attraverso le sinistre, profumatamente finanziate dal Cremlino, come documentato nel volume di Victor Zaslavsky, ”Lo stalinismo e la sinistra italiana”. È necessario un cambiamento di direzione risolutivo nella politica italiana e così il 31 maggio 1947 s’insedia il IV governo De Gasperi, un esecutivo monocolore DC, in cui spiccava la presenza di un liberale come Luigi Einaudi al Tesoro. Questo governo segna la definitiva estromissione delle sinistre, il PCI capeggiato da Togliatti e il PSI guidato da Nenni, dal governo del Paese.

De Gasperi e Sforza provano in ogni modo a dimostrare la bontà della loro politica, orientata verso Washington e non verso Mosca, ma numerosi sono gli ostacoli interni da superare. Un segnale incoraggiante arriva dagli Stati Uniti. Era il 5 giugno e dalle aule dell’università di Harvard il segretario di Stato americano, George Marshall, enuncia in un discorso i principi che saranno alla base del cosiddetto “Piano Marshall”, il più grande programma di sostegno economico mai varato da un singolo governo, che ha lo scopo di mantenere tutti i Paesi europei, anche quelli che sfortunatamente sarebbero diventati satelliti sovietici, nel solco delle liberal-democrazie. Il Piano Marshall, insieme alla Dottrina Truman, assicurano al governo italiano sostegno e una certa libertà di manovra, poiché, come ricorda Tarchiani in un telegramma segreto inviato a Sforza, «ogni governo che intenda cooperare al compito della ricostruzione europea troverà piena collaborazione dal governo USA».

È in questo clima che a Washington, nell’agosto del 1947, vengono firmati gli accordi tra il sottosegretario di Stato americano, Robert A. Lovett, e il ministro dell’Industria italiano, Ivan Matteo Lombardo, che sanciscono ufficialmente la ripresa di normali relazioni tra Italia e Stati Uniti, e riconoscono, inoltre, la partecipazione attiva dell’Italia al fianco degli alleati nella liberazione, aprendo così de facto uno spiraglio revisionista circa il trattato di pace. Lovett li commenta così: «Il fatto che furono gli italiani stessi a far cadere il governo fascista, a cominciare dall’8 settembre 1943, e che essi si unirono agli alleati come co-belligeranti contro i nazisti distingue chiaramente gli italiani dagli altri nemici degli Stati Uniti d’America nella Seconda Guerra Mondiale». 

Le premesse di una fattiva collaborazione nel blocco occidentale trovano un solido fondamento nel discorso di Marshall, ma la presenza del terzo partito comunista del mondo impedisce all’Italia di rompere gli indugi e adottare fin da subito una posizione atlantica. Secondo il Dipartimento di Stato, i comunisti di Togliatti possono contare su un numero di ex combattenti armati superiore a quello delle stesse Forze Armate italiane, che sono tenute oltretutto a rispettare i limiti imposti dalle clausole del trattato di pace.

Washington acquisisce una consapevolezza sempre maggiore della precarietà della situazione italiana. In un report del National Security Council del novembre 1947, dal titolo ”Per la salvaguardia dell’integrità territoriale e della sicurezza interna dell’Italia”, si afferma che gli Stati Uniti hanno interessi primari di sicurezza nella Penisola e che per la loro salvaguardia sarebbero stati impiegati tutti i mezzi a disposizione, senza eccezioni. Ma si mette anche in guardia l’Italia, o meglio il suo elettorato: qualora i comunisti fossero usciti vincitori dalle elezioni del 1948, la politica americana nei confronti dell’Italia sarebbe stata riconsiderata.

De Gasperi accoglie con cautela le conclusioni del report, comprendendo che un appiattimento sulle posizioni americane in clima di campagna elettorale avrebbe rischiato di fare il gioco delle sinistre filosovietiche. Ciò nonostante, il capo del governo non ha mai pensato di allontanarsi dagli Stati Uniti, come dimostrano inequivocabilmente i documenti diplomatici e le corrispondenze dirette ai politici oltreoceano.

Truman stesso si accolla l’onere di dimostrare quanto l’America sia vicina all’Italia. Nella cosiddetta “Garanzia Truman” datata dicembre 1947, si legge: «Se in seguito allo svolgersi degli eventi dovesse risultare evidente che la libertà e l’indipendenza dell’Italia sono minacciate direttamente o indirettamente gli Stati Uniti si troveranno nella necessità di studiare misure adeguate per il mantenimento della pace e della sicurezza».

In vista delle elezioni, dunque, gli americani intendono offrire il loro supporto affinché l’Italia possa inserirsi stabilmente nel novero delle democrazie liberali, mentre ad Est avanzano le democrazie popolari di stampo sovietico. Ora tocca al governo italiano, e in particolare a De Gasperi e Sforza, non sprecare l’opportunità del sostegno americano.

Da molti ambienti politici e culturali italiani la minaccia sovietica non è tenuta in debita considerazione. Quando Marshall dà il suo nulla-osta all’invio di una fornitura di armi alle deboli Forze Armate italiane a condizioni particolarmente privilegiate, non crede che si sarebbe trovato dinanzi a interlocutori tanto timorosi e titubanti. Dal canto suo, Gasperi è preoccupato dalle conseguenze sulla campagna elettorale di una strumentalizzazione della garanzia americana da parte del blocco social-comunista. In effetti, la voglia di lasciarsi alle spalle le penurie e i dolori della guerra spinge parte dell’elettorato, anche democristiano, soprattutto quella corrente che aveva il suo riferimento nella rivista “Cronache sociali”di Giuseppe Dossetti, ad agognare una neutralità liberatoria.

Ma nella Guerra Fredda, allora incipiente, le scelte di politica internazionale non lasciavano spazio alle posizioni intermedie, tipiche della cultura politica italiana. Così, se a Washington la situazione è ben chiara, a breve lo diverrà anche a Roma. Nel marzo 1948, è l’ambasciatore in Italia Dunn a spiegare che non si poteva indugiare oltre nella scelta tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Confluire nel blocco comunista avrebbe significato per gli italiani tornare a vivere sotto una dittatura, di colore diverso, ma forse ben peggiore della precedente.

La Farnesina recepisce il messaggio americano e il 18 marzo l’”incidente di strada”, come viene definito dagli ambienti diplomatici italiani, si ricompone: le armi arriveranno in Italia dopo le elezioni, ormai imminenti.

Nell’aprile 1948, le urne decretano il trionfo della DC, e quindi del loro leader carismatico, e la “Caporetto” del Fronte popolare di Togliatti e Nenni, che escono umiliati con un risultato appena superiore al 31%. L’esito delle elezioni mette l’Italia al riparo dal rischio di una cospicua rappresentanza filo-sovietica in Parlamento e da una possibile deriva “cecoslovacca”. A Praga, i comunisti erano entrati nel governo e avevano subito dopo organizzato un golpe per ridurre al silenzio le altre componenti dell’esecutivo e consegnarsi tra le braccia del PCUS.

Adesso tocca a De Gasperi esporsi in prima persona e spiegare, non solo ai suoi elettori, ma a tutto il Paese, le ragioni per cui bisognava credere negli Stati Uniti e nella collocazione all’interno del blocco occidentale.

C’è ancora un ostacolo giuridico che impedisce all’America di accelerare verso la formalizzazione di una vera e propria alleanza con le democrazie liberali europee: l’impossibilità di concludere alleanze militari al di fuori del continente americano in tempo di pace. L’11 giugno 1948, l’approvazione della “Vandenberg Resolution“ cambia le carte in tavola, consentendo al governo americano di stipulare alleanze al di fuori del continente anche in tempo di pace. A trent’anni di distanza dal totale fallimento della Società delle Nazioni, figlia della pace di Versailles e del presidente democratico Wilson, gli Stati Uniti comprendono che l’isolazionismo avrebbe fatto solo il gioco dei sovietici e che senza un blocco occidentale in Europa avrebbero lasciato il vecchio continente alla mercé di Stalin e del Politburo.

Dopo il via libera della “Vandenberg Resolution“, a Washington prendono il via i negoziati per la costituzione di un’autentica alleanza politica e militare tra gli Stati Uniti e i paesi dell’Europa occidentale. Nella primavera 1948, iniziano i “Pentagon Talks”, che nel luglio successivo diverranno gli “Exploratory talks on security” tra Gran Bretagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Stati Uniti e Canada.

Nel frattempo, in Italia, con la bocciatura della mozione sulla neutralità voluta da Nenni, il problema della collocazione internazionale sembra superato, sebbene a risultare decisiva per l’adesione italiana alla futura Alleanza Atlantica sia la posizione francese, espressa nella seconda sessione degli “Exploratory talks on security” del febbraio del 1949. Parigi non agisce in maniera disinteressata, ma si schiera a favore dell’ingresso dell’Italia affinché nello spazio di sicurezza euro-atlantico venga inclusa anche l’Algeria, suo territorio metropolitano, in modo da ottenere un bilanciamento territoriale verso il Mediterraneo.

Tenuto conto del parere favorevole della Francia, e dopo aver esaminato attentamente i contenuti del documento “Arguments for the inclusion of the Italy in the North Atlantic Pact”, Truman e Dean Acheson, stretto collaboratore di Truman divenuto segretario di Stato, decidono che la migliore soluzione è includere l’Italia nell’Alleanza. In un’intervista, De Gasperi dichiara: «Il problema non era solo la difesa militare bensì il collocarsi fattivamente nell’Occidente, poiché vi era una comunità di valori, quali la libertà e la democrazia, condivisi da tutti e verso i quali bisognava aspirare”. Concetti, questi, ribaditi inequivocabilmente nel suo intervento a Bruxelles presso le “Grandes Conférences Catholiques», dove lo statista trentino illustra il trinomio tra libertà, giustizia e pace come punto ideale d’incontro tra democristiani, repubblicani e liberali.

Giunge così il momento di consultare il Parlamento sulle linee di politica estera stabilite dal governo e il risultato, con una soverchiante maggioranza, è di nuovo favorevole alle scelte del primo ministro.

Si giunge così al 4 aprile del 1949, quando presso l’auditorium del Dipartimento di Stato a Washington, viene siglato il Trattato Nord Atlantico. Per l’Italia la firma è quella di Sforza.

Il nostro Paese fa così il suo ingresso nel sistema politico e di sicurezza occidentale, e godrà della protezione della NATO, l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico creata a supporto della neonata Alleanza, per tutta la Guerra Fredda fino ai nostri giorni.

Osservata con le grandi lenti della storia, al lettore comodamente seduto dinanzi al suo computer nel 2009, l’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica non deve dunque apparire scontato o, cosa peggiore, un atto dovuto. Lo svolgimento dei fatti ci dice che il rischio di confluire nel blocco sovietico è stato reale e concreto. Il diritto al «perseguimento della felicità», cui oggi aspiriamo come cittadini occidentali, tutti insieme e nessuno escluso, è un’eredità che abbiamo ricevuto dall’altra sponda dell’Atlantico, quella che aveva compreso l’importanza della creazione dell’Alleanza Atlantica e della NATO. Basta guardare a Est, appena oltre la «Iron Curtain» descritta da Winston Churchill, per vedere quali sono state le conseguenze del comunismo nei Paesi appartenenti al defunto Patto di Varsavia, in particolare sulla condizione di vita delle popolazioni, e quale gap questi hanno accumulato rispetto all’Occidente.

Oggi, passato l’11 settembre e dopo che da europei abbiamo vissuto l’11 marzo, la lezione dei vari Truman, Marshall, De Gasperi, Sforza, dovrebbe farci ancora da guida nell’affrontare le sfide odierne e ci ricorda la necessità del continuo rafforzamento del legame transatlantico. «United we stand», come allora anche oggi, 4 aprile 2009.