Di Pietro sa tutto: non ci resta che confessare
29 Gennaio 2009
Dopo la manifestazione dipietrista di ieri alcune cose sono più chiare nel panorama politico italiano. Da una parte c’è Tonino Di Pietro con tutto il suo lugubre pantheon poliziesco: Travaglio, Grillo, il terzetto in toga De Magistris-Forleo-Apicella (non quello delle canzonette, ma l’ex procuratore di Salerno), Micromega, e persino Gioacchino Genchi, il re dei tabulati telefonici. Dall’altro c’è tutto il resto, a cominciare dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Solo Veltroni continua a stare un po’ con lui ma anche un po’ contro di lui. Solo il Pd regge l’assurdo paradosso di avere un alleato che mette sotto accusa il meglio che ha saputo offrire alla politica di questi ultimi tempi.
Certo, con Di Pietro, c’è anche una colorita ciurma di manifestanti sempre pronti alla bisogna, di reduci di mani-pulite, di cittadini risentiti e scontenti che cercano ristoro nella palingenesi carceraria promessa dalla premiata ditta dei Valori. E c’è tutta una classe politica e sotto-politica, fatta di terze e quarte file della prima repubblica o di speranzosi neofiti, che su questi sentimenti diffusi conta di farsi o rifarsi una carriera istituzionale.
Il particolare fermento di questi giorni, l’alzarsi dei toni polemici, il rimettere in fila tutte le facce della squadra, segnala proprio questo: l’imminenza del voto europeo richiede un’accelerazione dello strepito, una continua accentuazione dell’alterità del gruppo persino rispetto ai simboli più solidi del consesso democratico.
Di Pietro è un politico di rara furbizia: la sua capacità di usare contemporaneamente le piazze e il Parlamento, la minaccia eversiva e il richiamo legalista, il populismo e le sottigliezze degli intellettuali organici, sta al pari solo di quella di Umberto Bossi (ma il paragone si ferma qui). Si tratta di una capacità messa al servizio di una sconfinata ambizione personale e di un progetto anti-politico che vive e si alimenta del peggio della politica. Per questo gli è essenziale gettare su tutto l’ombra dell’inganno, della mafiosità, della corruzione. Solo su questa cultura del sospetto e, in fondo, dell’odio, il suo movimento può strutturarsi e prosperare.
Per Di Pietro, i politici sono una casta, il Parlamento una cosca, il Quirinale mafiosamente silenzioso, persino il Csm e l’Anm sono nemici della giustizia, e il popolo – tranne i suoi – è bue. Le sue incredibili doti comunicative e mediatiche, la sua banda di comici e intrattenitori, la padronanza del mondo di internet, senza contare una certa imprudente connivenza di grandi firme e grandi testate, gli hanno consentito di imporre questa sceneggiatura al dibattito pubblico. Ma, verrebbe da dire, sotto la toga nulla. Quale idea dell’Italia abbia l’Italia dei Valori non si capisce. A parte quella, propagandistica, di imbracare il legno storto dell’umanità fino a raddrizzarlo, non si intravede alcun progetto di governo del paese, nessun modello alternativo dell’organizzazione sociale, nessuno sforzo creativo.
Ma non è separando con un colpo di spada i buoni dai cattivi che si rifonda un paese. Non è palingenetica la missione della giustizia, ma personale e circoscritta, sia nelle pene che nelle remunerazioni.
In un comizio telematico postato sul sito di Beppe Grillo, Di Pietro, seduto al centro di una quinta asfittica come quella di una questura, ripete ossessivamente il ritornello “io so”. Incalza l’ipotetico indiziato, che immaginiamo fuori campo seduto e tremante di fronte al suo tavolo, con il tono dell’inquisitore che dice: so già tutto, non ti resta che confessare. Lui, Di Pietro, sa tutto, conosce tutto il marcio che alberga nel paese e dentro ciascuno di noi, vuole una confessione generale, un pentimento e una resa all’imperio della sua giustizia. Questo è il suo programma: o con me o in galera.