Di quella notte ricordo la mia Dodge che sfrecciava e l’odore dell’Atlantico

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Di quella notte ricordo la mia Dodge che sfrecciava e l’odore dell’Atlantico

17 Maggio 2009

Era una serata tranquilla, fresca, tanto che le palme ai bordi delle strade dondolavano a braccetto con il vento. Avevo preso la decappottabile, una Dodge Polara bianca del ’66 che avevo affittato qualche giorno prima, per fare un giro in città e respirare un po’ di brezza dell’Atlantico, quando improvvisamente mi hanno accostato due volanti, e mi hanno fatto scendere.

Me la stavo spassando e non avevo affatto intenzione di mettermi nei guai, mi sono attenuto rigorosamente a tutto quanto mi ordinavano. Per fortuna ci eravamo fermati vicino all’oceano, e scendendo sono riuscito a intravedere una nave in lontananza. Adoro l’oceano la sera, perdere lo sguardo in quel blu infinito, riposante, inquietante. Non avevo certo paura, io, che stavo per diventare il campione del mondo!

Quei bastardi mi hanno pestato di botte, e trascinato al commissariato, senza motivo. Poi da lì in un ospedale, dove un tipo in fin di vita avrebbe dovuto riconoscermi. Ma non lo ha fatto. E giù altre botte. Prenderle da loro non era come sul ring. Lì mi piaceva l’idea di poter essere picchiato: l’essere nudi l’uno di fronte all’altro per vedere chi avrebbe prevalso in una lotta ad armi pari. Anzi, senza armi. Invece senza potersi difendere era come fare un incontro con un ragazzino, e non capivo che gusto ci provassero.

Quando siamo tornati al commissariato ho realizzato cosa stessero architettando, e ho sentito nitido il sapore della fine. Mi sono arreso. Io, che non mi arrendevo mai, che sul ring non prendevo un pugno, e che sarei potuto diventare il campione del mondo… Ho chiuso gli occhi, lasciandomi andare a soprusi e violenze, sperando di non doverli mai più riaprire. E forse sarebbe stato meglio così: quando l’ho fatto ero in prigione. Dolorante, scomodo. Tra cattivi odori e umidità.

Non aveva più senso sentire alcunché, anzi, sarebbe stato peggio.

Così, dopo aver imparato a chiudere gli occhi, ho dovuto imparare a tenerli chiusi anche quando erano aperti. Per non pensare, per non capire. Per non rendermi conto del fatto che ero ancora vivo, e che senza quegli uomini intorno, quei manganelli e quelle sbarre, avrei potuto vivere davvero. In tutti quegli anni gli unici sorrisi me li strappavano, mio malgrado, i ricordi. Di quella notte soprattutto, quando la brezza dell’Atlantico andava braccetto con le palme e la Dodge sfrecciava sul lungomare.

Mi hanno accusato di triplice omicidio, a me, che ero soltanto uscito a fare un giro. A me che sarei potuto diventare il campione del mondo, e invece mi hanno rubato la vita, privato della libertà, e fatto diventare uno sporco topo di fogna, per ventidue anni, e per qualcosa che non ho mai fatto.

 

Marco Zarfati è nato a Roma nel 1980. Ha studiato e vissuto a Gerusalemme per quattro anni. Con le edizioni Fermento ha pubblicato Io ci sto e L’Agosto di Mario Rossi.