Dietro a Occupy c’è politica ma anche la rottura dell’asse educazione-lavoro
05 Novembre 2011
Il presidente degli Stati Uniti è comodamente seduto davanti al suo interlocutore, sullo sfondo gli arredi dorati della Casa Bianca. Nella poltrona di fronte c’è George Stephanopoulos, che sta per intervistarlo in esclusiva per la Abc News. Entrambi sono sorridenti e rilassati, sembrano al loro agio. Stephanopoulos inizia con una domanda facile, quasi un assist per compiacere il Obama: “Abbiamo ricevuto ben 40.000 domande sul sito dedicato a questa intervista: la maggior parte di scrive è arrabbiata, sostiene di stare molto peggio di quattro anni fa. Come si fa a convincerli del contrario?”. Obama forse è distratto, forse non riflette prima di rispondere e dice: “Non si può, perché è vero, l’America non sta meglio oggi di quattro anni fa”. Il momento è topico, ma passa rapidamente: il presidente riguadagna il controllo della situazione e comincia a dipanare tutti i successi ottenuti per stabilizzare l’economia. Ma l’affermazione resta, sospesa e pesante, durante tutto il colloquio e segna una svolta di percezione da non sottovalutare.
Il primo cittadino d’America ha appena detto ai suoi connazionali che il progresso di cui il suo paese è stato un faro nel mondo si è fermato, anzi ha cominciato a riavvolgersi riportando in dietro le lancette del benessere. Per la prima volta non sono stati gli avversari politici, i giornali malevoli, gli intellettuali conservatori, i militanti liberal, le minoranze etniche a sostenere che l’oggi non è meglio di ieri, ma è il presidente degli Stati Uniti a riconoscerlo candidamente e a mettere in una sola voce la voce di tutti gli americani. Con quella apparentemente banale affermazione, Obama rompe un paradigma che è stata la forza della società civile americana per decenni, quella certezza secondo cui i figli avrebbero avuto una vita migliore dei genitori e i nipoti migliore dei figli in un crescendo legato alle virtù profonde di un paese eccezionale. Ogni sacrificio, ogni risparmio, ogni rata del mutuo, ogni dollaro versato al college: tutto era visto all’interno di un disegno progressivo di cui le successive generazioni avrebbero goduto i frutti. Ora Obama dice che non è necessariamente così, che anche i sacrifici e la vita misurata e lo studio e il lavoro possono non bastare ad andare avanti. Che il progresso non è qualcosa che l’America ha per un patto divino. Ci sono le crisi, ci sono le guerre, ci sono gli tsunami e i terremoti, c’è l’Europa e il suo debito e c’è l’Asia e la sua supremazia, ci sono i Repubblicani e la loro ostinazione e c’è il Congresso che non fa il suo lavoro.
Obama in quell’intervista racconta agli americani che il mondo è cambiato che gli Stati Uniti non sono più al riparo dal mondo. Ma soprattutto racconta del suo personale fallimento, perché buona parte di quei quattro anni che hanno riportato indietro il paese sono essenzialmente i suoi anni, gli anni del cambiamento e gli anni della speranza, che oggi lui stesso riconosce come gli anni della stasi e della disperazione. Certo il presidente contestualizza le sue difficoltà e quando ammette che “la rielezione sarà dura” descrive un quadro in cui il suo operato e il suo potere sono messi in discussione da una congiuntura planetaria che sfugge al controllo della Casa Bianca: “The biggest headwind the American economy is facing right now is uncertainty about Europe, because it’s affecting global markets. The slowdown that we’re seeing is not just happening here in the United States, it’s happening everywhere. Even in some of the emerging markets like China, you’re seeing greater caution, less investment, deep concern”. Ma è una difesa che si ritorce contro di lui e in definitiva contro l’istituzione che rappresenta. Un sondaggio Washington Post/Bloomberg ha chiesto a un campione di elettori democratici se credono che la sconfitta di Obama nel 2012 peggiorerà la situazione economica. Il risultato è stato sorprendente: Il 48 per cento prevede che l’economia peggiorerà ma quasi altrettanti – il 42 per cento – ritengono che sarà tale e quale. Circa metà dei potenziali elettori di Obama si è lasciata dunque convincere che se è vero che il presidente non ha tutte le colpe per la situazione economica allora non ha neppure il potere di migliorarla.
La dimostrazione più plateale di tutto ciò è l’incredibile fatica con cui Obama sta cercando di far approvare il suo tanto atteso e miracolistico American Job Act. Eppure tutto lo spettro politico del paese concorda sul fatto che la disoccupazione è la più grave minaccia per gli Stati Uniti e per il mondo industrializzato. Dal maggio 2009 il tasso di disoccupazione americano non è mai sceso sotto il 9 per cento e persino dopo la chiusura formale della fase di recessione i posti di lavoro non sono cresciuti di un decimale. Per tutto il 2006 e 2007 il tasso di disoccupazione non era mai arrivato al 5 per cento. Gli economisti considerano questo balzo ormai strutturale e anche in caso di completa ripresa economica ritengono che non sarà possibile tornare ai livelli pre-crisi. Ne ha scritto ampiamente e tragicamente un giornalista esperto di mercato del lavoro come Don Peck in un saggio dal titolo “How a new jobless era will trasform America”. La sua tesi è la seguente: “… This era of high joblessness will likely change the life course and character of a generation of young adults—and quite possibly those of the children behind them as well. It will leave an indelible imprint on many blue-collar white men—and on white culture. It could change the nature of modern marriage, and also cripple marriage as an institution in many communities. It may already be plunging many inner cities into a kind of despair and dysfunction not seen for decades. Ultimately, it is likely to warp our politics, our culture, and the character of our society for years”.
Sono impressioni ampiamente confermate dai dati. Come il recente studio del Census Bureau americano. Secondo questi rilevamenti il reddito medio di una famiglia americana nel 2010 è tornato ai livelli del 1996. E’ il fenomeno che induce gli economisti a parlare di “lost decade”. Lawrence Katz, docente di Harvard, ha così commentato sul Nyt questi dati: “We think of America as a place where every generation is doing better, but we’re looking at a period when the median family is in worse shape than it was in the late 1990s”. Obama parlava degli ultimi quattro anni ma il trend negativo che impiglia l’economia americana e in modi simili anche quella del resto del mondo sviluppato si estende almeno su un decennio. E gli effetti peggiori si fanno sentire proprio sulla generazione che sta per entrare nel mondo del lavoro in questa fase. Non solo su di loro grava la difficile congiuntura economica, ma privi di lavoro non riescono neppure a ripagare i debiti universitari con i quali si sono pagati gli studi.
Non hanno neppure iniziato la loro vita adulta che già hanno sulle spalle una media di 20-25 mila dollari di debito. A cui vanno aggiunti i debiti che si accumulano ogni mese sulle carte di credito con cui si spende più di quello che si riesce a ripagare. I due terzi della generazione che si è laureata nel 2008 ha sulle spalle una media di 24,651 dollari in student loans. Nell’agosto del 2010 per la prima volta l’ammontare complessivo degli students loans (829 miliardi di dollari) ha superato i debiti sulle carte di credito (826 miliardi di dollari. La questione degli students loans domina i blog e i social forum legati al movimento Occupy Wall Street. Sul sito wearethe99percent.com una studentessa scrive: “I am a freshman in college with 12k+ in student loan debts ALREADY and my family has very little opportunity to support me. (month six of looking for a part time job!) I do not want to belong to a this society that first puts a blindfold on its people and then throws it into the unknown”. Un altro studente racconta in un suo annuncio:
“12 years of college
3 degrees (BA, MA, PhD) 4.0 grade average, plus publications
1 Full-time job (40 hours) with part-time pay teaching college NO BENEFITS!
1 Part-time job (16 hours) to make ends meet
$2,500/mo in take home pay
$58,000 in student loans I AM LUCKY!!! My loans are in low-income forbearance, and the interest keeps rising—I cannot pay.
I worked hard (40 hours a week during most of my education), for what? Because hard work and education is supposed to pay off.
I will never own a home.
I am one misfortune away from disaster.
My only luxury (one I need for my job) is the internet—what else do I cut back on? Tell me what I need to do to get ahead, because I did EVERYTHING RIGHT! EVERYTHING!”
Lo svantaggio di affacciarsi nel mondo del lavoro in un periodo di recessione marca tutta la vita lavorativa e mette un’ intera generazione un condizione di perenne svantaggio rispetto a quelle precedenti. Lo ha dimostrato Lisa Khan, un’economista di Yale. Secondo i suoi studi, per ogni aumento di un punto percentuale nella disoccupazione, il reddito iniziale di un nuovo laureato inserito nel mondo del lavoro cade del 7 percento. Questo gap permane anche dopo 10 o 15 anni dalla laurea. In questo modo i guadagni perduti negli anni rappresentano una compensazione, continua la Kahn, a quel regalo di $ 100,000 fatto ai laureati nei periodi di boom, aggiustati all’inflazione, a ridosso della laurea – o specularmente è come se agli sfortunati fosse stato accollato un debito dello stessa grandezza.
In questo clima non è sorprendente che Obama stia cambiando completamente la sua comunicazione per la campagna elettorale. Il presidente in carica ha infatti scelto di di attenuare i toni da commander in chief e vestire invece i panni dell’underdog. Lo ha ammesso nella stessa intervista a Stephanopoulos: “The majority of Americans, 55 percent, think you’ll be a one-term president. Are you the underdog now? “ E Obama risponde senza esitare: “Absolutely”. Lo stesso intervistatore è sorpreso per tanta prontezza e insiste: “You embraced that pretty quickly”. Così il presidente decide di vestire per intero i panni del perdente: “I’m used to being an underdog”. Forse si è reso conto che il modo migliore per parlare a quegli americani convinti di essere ormai dei perdenti è sembrare uno di loro.
Tratto dal mensile di politica internazionale Longitude