Dietro al caso Brancher c’è la guerra tra i colonnelli di Bossi. Ma non solo

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Dietro al caso Brancher c’è la guerra tra i colonnelli di Bossi. Ma non solo

27 Giugno 2010

Il "caso" Brancher apre un nuovo fronte di tensioni: dentro il Pdl, tra Pdl e Lega. Ma dice anche molto su cosa sta accadendo nell’apparente "moloch" leghista dove da diversi mesi è in atto un conflitto tra i "colonnelli" per la successione al Senatur. Per il Cav. invece, è una grana in più che rischia di avere effetti negativi sull’immagine del governo e sul cammino delle riforme costituzionali, a cominciare dal legittimo impedimento finito nel mirino del Colle per il caso specifico e che ora potrebbe finire anche in quello della Consulta.

Una evidente invasione di campo quella di Napolitano, ma il punto è che d’ora in avanti traghettare la norma (ha carattere temporaneo) nella costituzionalizzazione del Lodo Alfano per la maggioranza rappresenterà un’impresa, non certo una passeggiata. Con le opposizioni già pronte alla sfiducia nei confronti di Brancher e determinate al muro contro muro, con l’Udc che dopo aver spinto per estendere lo scudo anche ai ministri, oggi fa intendere che così non va più bene.

Ieri il neo-ministro al Decentramento ha confermato che non lo userà nel processo sulla scalata di Bpi ad Antonveneta che lo vede tra gli imputati e ha stigmatizzato l’onda lunga delle polemiche, confermando che di dimissioni non si parla. Evidentemente, la moral suasion del Cav. dal Canada, ha evitato ulteriori danni, eppure sul piano politico la vicenda rischia di complicare il quadro.

Nel Pdl, infatti, i finiani con Bocchino si intestano la "vittoria" dopo l’ennesimo pressing mediatico (non negli organi di partito che invocano ogni due per tre) sul premier cercando strumentalmente di accreditarsi come la "parte" sana del partito, ma è nella Lega che i nodi stanno venendo al pettine.

Da un pò di tempo a questa parte "la Lega non è più la Lega" ammette a mezza voce una camicia verde della prima ora, che vuole restare nell’anonimato. Del resto, la consegna è ferrea e il codice interno non ammette defezioni, da sempre: bocche rigorosamente cucite per tutelare l’aura di compattezza e concordia attorno al partito del Po.

Tuttavia, i malumori che da tempo covano sotto la cenere, oggi cominciano ad emergere anche tra gli integralisti più coriacei. E la nomina di Brancher a ministro è solo l’ultimo segnale in ordine temporale. Tanto è vero che prima il Carroccio ha tentato di farla passare come una iniziativa estemporanea del Cav., non concordata con l’alleato di ferro, salvo poi costatare che al giuramento di Brancher al Quirinale c’erano in qualità di "padrini" (come ironicamente si sono autodefiniti)  Calderoli e Tremonti.

Poi, dopo lo scivolone "dell’amico Aldo" sul legittimo impedimento ha di fatto mollato quell’ufficiale di collegamento tra il Senatur e il Cav. col quale il rapporto è sempre stato saldissimo. Lo stesso Calderoli lo ha bollato parlando di mossa poco furba e rispendendo la patata bollente nel campo del Pdl. 

Ma cosa c’è dietro? Tutto ruota attorno al federalismo, dossier sul quale la Lega ha puntato tutto senza considerare che la contingenza del momento (crisi internazionale) e i ritardi di Tremonti sui costi reali dela riforma ne avrebbero quantomeno rallentato il cammino.

A questo si aggiunge la guerra interna di posizionamento che tra i colonnelli leghisti si è aperta da alcuni mesi per la successione al leader. E sarebbe stato proprio il livello di fibrillazione nel Carroccio, il campanello di allarme che avrebbe spinto Berlusconi a nominare un suo fedelissimo nella cabina di regia del federalismo, ufficialmente per collaborare con Bossi e Calderoli, di fatto per monitorare le mosse dell’alleato.

Le tensioni oltre-Po cominciano ad emergere in maniera evidente alla vigilia delle elezioni regionali, quando il Senatur decide di candidare il figlio Renzo a Brescia stringendo un accordo con i Camparini, famiglia di peso (politico) nel territorio. E’ a quel punto che tra i vertici inizia a serpeggiare un certo malumore.

Il secondo segnale sta nella competizione aperta tra i colonnelli: Maroni, Calderoli, Giorgetti e Castelli (quest’ultimo più defilato) e l’ala veneta guidata da Zaia e Tosi.Ma anche tra questi ultimi la competizione si apre nel momento in cui Zaia viene preferito al rampante sindaco di Verona per la poltrona di Galan.

Il terzo segnale sta nell’intervista al Corsera che Maroni rilascia subito dopo la vittoria elettorale, nella quale lancia un messaggio che ai suoi è sembrato sospetto: il titolare del Viminale dice che ora è il momento di fare le riforme, intendendo tutte le riforme non solo quella federale. La mossa viene letta come un modo per intestarsi la leadership della Lega.

La contromossa è immediata: Calderoli sale al Colle con in tasca la "sua" riforma istituzionale, da un lato per stoppare le ambizioni di Maroni e riaccreditarsi come il vero ministro delle riforme, dall’altro per portare acqua al mulino del Senatur. L’iniziativa fa infuriare Fini convinto che dietro vi sia lo zampino del Cav. Ennesimo abbaglio. Gli zampini, invece, erano tutti leghisti.

In questa condizione di maretta si va avanti fino alla manovra economica, nuovo elemento di tensione dentro il Carroccio. Perché a guastare la festa ci si mette pure Formigoni che del decreto Tremonti non contesta l’obiettivo prioritario, ma sul piano politico dalla Lombardia si mette alla testa degli enti virtuosi che non vogliono essere penalizzati, togliendo così la ribalta alla Lega ma al tempo stesso mettendola in crisi, dal momento che Bossi e Calderoli avevano rassicurato governatori e popolo del Nord che la manovra andava bene così.

In più, Tremonti non contrasta apertamente la protesta formigoniana e questo fa infuriare il Carroccio che col ministro del Tesoro aveva stretto un patto di non belligeranza in cambio del via libera ai decreti attuativi del federalismo. In realtà, il motivo del ritardo tremontiano nel calcolo dei costi federalisti sta nel rischio che in un momento come questo si possa creare incertezza nei mercati per il fatto che nella fase di transizione,  insieme ai benefici del decentramento, alle venti regioni andrà anche il trasferimento di parte del debito pubblico.

Ora, è il ragionamento nei ranghi della maggioranza, se vi sono regioni virtuose e a posto coi conti e quindi affidabili agli occhi dei mercati, ve ne sono altre con parametri non proprio eccelsi che dovranno far fronte all’impegno. Starebbe in questa valutazione il nodo che spazientisce la Lega e in particolare Calderoli che col capo aveva rassicurato l’elettorato. Un problema serissimo per il Senatur che non può permettersi di stare per la terza volta al governo e non riuscire a portare a casa il federalismo.

C’è un altro aspetto che racconta la guerra di posizionamento tra i colonnelli leghisti. Se Calderoli cerca di chiudere con Tremonti sulla manovra e Maroni si candida a vero successore,  c’è il terzo "incomodo" Giorgetti (da molti definito l’ombra di Bossi) che conduce la "sua" partita a un passo dal Senatur. In molti nel centrodestra hanno letto – forse con eccessiva malizia – nell’iter a singhiozzo del codice per le autonomie (la riforma del testo unico degli enti locali) considerato una "creatura" di Calderoli, una mossa per stoppare le fughe in avanti del ministro della Semplificazione.

Licenziato dalla prima commissione, il codice arriva in Aula ma la commissione Bilancio presieduta dallo stesso Giorgetti pone alcuni paletti anche in considerazione dei vincoli imposti da Tremonti. Fatto sta che l’esame del testo viene sospeso per una settimana (riprenderà da martedì) e sostituito con quello sulle fondazioni e gli enti lirici.

In tutta questa Babele, Berlusconi ha capito che fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. Ecco perché decide di mettere un suo uomo dentro il dossier del federalismo e sceglie Brancher già sottosegretario di Bossi alle riforme. Un modo per avere un voto in più dalla sua in Consiglio dei ministri, ma anche per controllare da "dentro" le mosse della Lega e al tempo stesso per evitare che i ritardi sull’attuazione del federalismo possano avere contraccolpi nella maggioranza.

Un fatto è certo: il Cav. non ha alcuna intenzione di diventare ostaggio da un lato di Fini (che assomiglia sempre più a un alleato piuttosto che al cofondatore) e dall’altro di Bossi e di essere privato dell’arma, almeno minacciata, delle elezioni anticipate. Il Senatur ha capito il gioco del premier – dicono dalla maggioranza – tanto è vero che ieri ha mandato un doppio messaggio: un attacco a freddo a Fini e un invito indiretto a Berlusconi. Come a dire: non faccio la sponda con il presidente della Camera ma tu non puoi pensare attraverso la nomina di Brancher di manovrare dentro al mio partito.

Insomma, in questo quadro interno alla maggioranza e coi rapporti nuovamente tesi col Colle , riprendere le fila del discorso e rimettere le cose in ordine per il premier è un compito alquanto complesso.

L’unica via per liberarsi dalla manovra a tenaglia, è cambiare tavolo di gioco. E la mossa del Cav. che in molti nel Pdl danno per imminente o almeno auspicano, potrebbe ancora una volta ribaltare la situazione. Spezzando la tenaglia e  riprendendo in mano il timone.