Dietro i sorrisi e le strette di mano, si nasconde una sconfitta diplomatica
13 Giugno 2008
L’incontro tra Silvio Berlusconi è George W. Bush è andato male. Parliamo di relazioni internazionali, non di amicizia e strette di mano. Quelle possono impressionare i parvenu, non chi conosce la durezza felpata della diplomazia.
Avevo già scritto che Bush va in giro per il mondo con l’etichetta “da consumare entro e non oltre il 4 novembre” (data delle elezioni presidenziali), ma a quanto pare le lancette dell’orologio italiano sono ferme al 2001 e si è concesso all’attuale amministrazione americana più credito di quanto meriti. Non è un problema di qualità, ma semplicemente di durata del commander in chief. L’imminente scadenza del governo della Casa Bianca avrebbe dovuto consigliare a Palazzo Chigi prudenza e alla Farnesina la stesura di un’agenda credibile. Niente di tutto questo è stato fatto. Ce ne dispiace, perché bastava poco per trasformare l’incontro tra Berlusconi e Bush in un fatto diplomatico importante e non in una battaglia perduta goffamente.
Al ministero degli Esteri sono ossessionati dalla “politica della sedia”.Il ministro Franco Frattini ha puntato tutto sull’ingresso dell’Italia nel gruppo (il cosiddetto 5+1) che tratta il dossier nucleare dell’Iran.
Peccato che i tedeschi non abbiano nessuna intenzione di apparecchiare il tavolo anche per noi. La Germania vuole un posto nel consiglio di sicurezza dell’Onu e l’Italia è un concorrente da abbattere non un alleato. Di fronte a un presidente americano fragile (modesto consiglio ai cronisti neocon de noantri: leggere i sondaggi, please) e in scadenza, alla brava e più che teutonica Angela Merkel è bastato alzare il dito per lasciare l’Italia fuori dalla porta. Sedia bruciata. Non ci voleva Harold Mackinder – padre della moderna geopolitica – per leggere lo scenario e trarre le conseguenze, ma Frattini ha preferito seguire le sue personalissime convinzioni e la sdrucita politica della Farnesina, sottovalutando la condizione di debolezza di Bush e annunciando l’appoggio americano alla candidatura italiana. Ne è venuto fuori un crac diplomatico esemplare. Tanto che mentre Bush e Berlusconi si preparavano all’incontro capitolino la Germania ribadiva il concetto: “Non c’è alcun bisogno di cambiare il formato del gruppo dei paesi 5+1”.
Grottesco a questo punto appare il messaggio finale “della sintonia totale” con l’alleato americano sui dossier aperti, in primis su quello iraniano.
Siamo seri, la politica italiana sull’Iran è ancora piena di buchi e tentennamenti. Nel 2006 il nostro Paese importava petrolio e gas per oltre 3 miliardi di euro, l’Eni è presente in Iran dal 1957, estrae greggio da due giacimenti, South Pars 4&5, nel Golfo Persico e Darquain. I piani di sviluppo dell’Eni prevedono entro il 2009 la produzione di 14 mila barili al giorno. L’Italia è un paese che dipende totalmente dalle importazioni di energia. Il governo avrà il coraggio di tagliare il filo con l’Iran? Stephen Hadley, il consigliere americano per la sicurezza nazionale, ha spiegato che sull’Iran ”i paesi alleati saranno chiamati a prendere dure decisioni che potrebbero essere contrarie ai loro interessi economici”. L’Italia è pronta? Sono domande che attendono ancora una risposta.
Entrare nel 5+1 non è una priorità per il nostro Paese, anche perché un suo fallimento è altamente probabile e potrebbe essere ricordato nei libri di storia come il gruppo che ha consentito il successo della strategia di talk and build (the bomb) da parte degli ayatollah. Nelle stanze che contano – vedi alla voce Pentagono – l’interrogativo ormai è un altro: “To bomb or not to bomb?”. Per questo la spasmodica richiesta italiana è stupefacente, non tiene conto dei dati reali, dello scenario futuro, dell’instabilità alla nitroglicerina del caso iraniano.
Quale dossier avrebbe dovuto preparare la Farnesina per il presidente del Consiglio? L’unico possibile per l’Italia: un serio incremento della spesa militare per operazioni di peacekeeping e un piano credibile di partecipazione alle missioni internazionali. Un ridimensionamento di Unifil (troppo costosa, infruttuosa e a breve altamente a rischio) con la richiesta del cambio delle regole di ingaggio in sede Onu; un aumento delle truppe e dell’operatività in Afghanistan; una partecipazione attiva e massiccia alla costruzione dell’esercito iracheno. Ci siamo limitati a promettere più flessibilità in Afghanistan, richiesta alla quale tra l’altro non si può più sfuggire, pena l’uscita dell’Italia dal club delle nazioni che contano qualcosa nella Nato.
Il governo ha commesso un errore strategico e bene ha fatto l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer sul Corriere della Sera a ricordare che “non è una corsa per il prestigio, perché è sempre più probabile un’azione militare”. La politica estera non è un tocco di glamour nel programma del governo, è qualcosa di aspro e insidioso, è la politica nella sua massima espressione e potenza. Come insegna il barone Carl Von Clausewitz la guerra ne è spesso la sua continuazione. L’Iran è una repubblica radioattiva, la Farnesina studi come coprire le imminenti sanzioni, torni al realismo e spenga in un falò le sue vanità.