Dietro il fallimento pakistano ci sono nodi etnici e storici irrisolti

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Dietro il fallimento pakistano ci sono nodi etnici e storici irrisolti

28 Aprile 2009

Già Tilly aveva ricordato che nella fase di formazione di un’entità statale era necessaria una certa omogeneità culturale all’interno della società e del territorio che vuole assurgere allo status desiderato. Questa omogeneità può essere ottenuta attraverso differenti elementi catalizzanti, non necessariamente sempre tutti presenti: una identità etnica, una comune religione, un assetto di valori condivisi, eccetera. 

E’ facilmente intuibile che l’area privilegiata di scambio dei valori è quella linguistica anche se – con le parole di Karl Deutsch, interpretato da Cofrancesco – “non è tanto importante che si parli lo stesso idioma quanto che si diano alle parole gli stessi significati”. Ma è nella condivisione di valori comuni, trasmessi attraverso una lingua egemone, che si può individuare il “palladio” dello stato nazionale. Barrès scrisse, nel romanzo Les deracinés,  chiedendosi cosa è la Francia (intesa come stato “perfetto”): “Una collezione di individui? Un territorio? No, è un insieme di idee. E’ l’insieme delle nozioni che tutti i pensatori […] hanno contribuito ad elaborare. È francese chi le possiede nell’animo. Senza filosofia dello stato,  non v’è reale unità nazionale”.

Come noto la formazione delle entità statali, nate dal processo di dissoluzione dei grandi imperi coloniali hanno, tragicamente, seguito differenti logiche. Non è un caso che si sia detto – con sarcasmo – che la cartina geografica del “terzo Mondo” sia stata disegnata  sorseggiando tè e whisky. Le potenze coloniali si erano suddivise l’intera Africa e parte dell’Asia secondo i propri interessi strategici, senza alcuna considerazione per la distribuzione delle varie etnie,  credenze religiose eccetera in un territorio. In virtù di questa logica  si trovarono, vincolati all’interno di determinati confini,  popolazioni che, per secoli, erano state – quanto meno – antagoniste, quando non nemiche. La decolonizzazione non ha fatto altro che amplificare i potenziali attriti, che precedentemente erano mediati e soffocati dalla potenza egemone. Gli stessi disordini internazionali hanno seguito, spesso, questa perversa logica. Dei 32 conflitti che si sono combattuti nel mondo dal 1945 al 1989, 18 vanno riferiti alla liquidazione degli imperi coloniali (19 se si vuole includere la guerra indo-pakistana).

Ciò che successe al gigantesco impero delle Indie – creazione artificiale della Gran Bretagna senza precedenti nella storia del subcontinente, anche considerando il mitico impero Maurya (IV,  II sec. AC) e l’impero Moghul ai tempi di Aurangzed (1707 ca) – non sfugge a questa logica. L’impero comprendeva una moltitudine di etnie con lingue e religioni differenti. Le forze centrifughe venivano, però, contenute non dalla presenza dell’esercito britannico, peraltro composto nella sua quasi totalità da coloniali, ma dalla specifica natura del colonialismo britannico, che lasciava gran parte dell’amministrazione alle elite locali, senza scalfire il sistema sociale vigente nell’area. Al momento dell’indipendenza, la più preziosa perla della corona di San Giacomo si spezzò in due sulla semplice base delle credenze religiose.

Da una parte si formò lo stato indiano che comprendeva le province dell’impero a maggioranza indù, dall’altra si impose il Pakistan a maggioranza mussulmana. Questa divisione in due stati, che ben presto divennero competitivi nella gestione di alcune regioni, portò a migrazioni di dimensioni bibliche: 10 milioni di indù lasciarono le proprie case per emigrare in India e 7 milioni di mussulmani fecero il medesimo viaggio in senso contrario.   L’India ebbe un suo percorso democratico – per quanto molto imperfetto – che aveva le sue radici più nelle sue radici storiche tradizionali che nel messaggio del Mahatma. Il politeismo indù – inclusivo per natura,  come tutti i politeismi – e la conservazione della lingua inglese per i documenti pubblici sono stati i due pilastri sulla quale si è basata la democrazia indiana.

Percorso differente fu quello del Pakistan. Il “Paese dei Puri”, voluto da Muhammed Ali Jinnah, era ben più fragile. A fronte della volontà del suo fondatore che, ispirandosi ad Atatürk, sognava uno stato laico e moderno, il Pakistan, fisicamente diviso dall’India nelle zone occidentali (l’attuale Pakistan) e quelle orientali (dal 1971 Bangladesh) aveva come unico collante quello della religione mussulmana. Senza contare che l’egemonia dell’Islam non era (e non è) serena, visto che, a fronte di una maggioranza sunnita del 75% dei credenti, vi è una non trascurabile minoranza sciita del 20%, non è presente nessun elemento identitario comune a tutta la popolazione. La composizione etnica è estremamente frastagliata e questa si riverbera sulla struttura sociale del paese.

Secondo i più recenti dati pubblici di provenienza CIA, l’etnia panjabi  (nel centro e gran parte della valle dell’Indo) ammonta al 44,68 per cento; quella pashtun (a nord ovest nelle aree tribali e province vicine ) al 15,42 per cento; la sindhi (a sud est e valle dell’indo) al 14,1 per cento; la saraiki (a sud – est) all’8,38 per cento;  la muhajir  (in urdu “immigrati”, facenti parte – o eredi – di quella migrazione mussulmana dall’India al Pakistan nel 1947), al 7,57; la Beluchi (a sud-est) al 3,57 per cento; altre etnie minori ammontano al 6,28 per cento. Questa diversità ha conseguenze sullo sviluppo delle lingue. Visto che la vecchia elite del paese era composta – nella maggior parte dei casi – di immigrati dall’India, la lingua dei Muhajir, l’Urdu, è lingua ufficiale, anche se comunemente parlata da una piccola minoranza.  

Ancora peggiore è la ripartizione su base sociale. Si parte da zone del paese in cui prevale l’aspetto tribale e si giunge a quelle meridionali, maggiormente urbanizzate, in cui il paese è organizzato modernamente. In questa realtà così magmatica uno dei pochi collanti è costituto dalle forze armate, Non è un caso che la vita politica pakistana sia stata caratterizzata dall’alternanza di regimi  militari e governi civili, comunque spesso, autoritari.

In epoca recente il sorgere del  fondamentalismo religioso che trovava la sua naturale culla nell’immigrazione pashtun dall’Afghanistan e nell’aumento del numero delle madrasse operanti nel territorio in quel mix – più volte, con efficacia, descritto da Panella – di azione-reazione nei confronti del modernismo e di riscatto dei ceti più poveri, ha moltiplicato le tensioni interne, ancora prima che gli americani cacciassero i talebani da Kabul. L’attuale recrudescenza del conflitto afghano, che mina i confini del paese, unitamente all’inazione del governo più debole della storia del paese sta portando il Pakistan sull’orlo del collasso.

La notizia che i talebani siano arrivati pressoché indisturbati a 96 chilometri da Islamabad è di quelle che lasciano il segno. I media si sono spesi in numerosi articoli ricordando come il Pakistan possegga un arsenale nucleare e che l’eventualità di un crollo del paese possa mettere l’atomica in mani fondamentaliste non sia totalmente remota. Nonostante che il generale Kayani, responsabile delle forze armate, abbia annunciato: “Non permetteremo ai militanti di dettare condizioni al governo o di imporre il loro stile di vita”, l’esercito – di salda impostazione laica per cento  non si è espresso, tutto preso da quel conflitto da “deserto dei tartari” con l’India, mentre l’ISI (i servizi segreti) continuano il loro ambiguo gioco con i talebani.

Anche le cancellerie occidentali cominciano a temere che a Islamabad prenda il potere una leadership fondamentalista. L’ammiraglio Mullen, capo di stato maggiore generale statunitense, si è spinto a dire che “ci stiamo avvicinando al punto critico in cui gli estremisti potrebbero impadronirsi del paese”.

Il nocciolo del problema non è il controllo del’arma nucleare. Da anni vi sono voci che esista un piano americano per  portare via dal paese l’arsenale atomico (30 testate circa) in caso di crisi istituzionale grave. Il centro della questione non è neppure il rischio che Islamabad cada – con tutto ciò che ne consegue – nelle mani dei talebani. Kaplan, in una intervista a “La Stampa” ha ricordato come le milizie islamiche non hanno la forza militare per sconfiggere l’esercito regolare, che conta 500.000 uomini.

Il vero schwerpunkt del nodo pakistano giace nel rinunciatario atteggiamento del presidente Alì Zardari, incapace di una razionale risposta politica. A differenza del predecessore Musharraf  che negli ultimi due anni – sotto le pressioni americane – aveva preso delle misure effettive per controllare la presenza dei talebani, siano essi afghani o pakistani, ottenendo il risultato “minimo” di contenere la loro espansione, il nuovo presidente – che ha come unico titolo di merito quello di essere vedovo di Benazir Bhutto – è evidente che è interessato solo a smarcarsi dalle precedenti direttrici politiche cercando una improbabile mediazione tra le differenti istanze dei gruppi etnici. Questi sforzi, però, sembrano peggiorare la situazione.

L’accordo del 16 febbraio con i talebani, che introduce la sharia nella regione dello Swat ha, di fatto, estromesso l’autorità di governo dalla regione e ha consentito alle milizie di avere una solida base per nuove operazioni. La conseguenza è stata la presa – senza colpo ferire – del distretto di Buner. Ora il governo pare incerto se fare nuove concessioni, che rafforzeranno i talebani sia sul terreno, sia nell’immaginario popolare, o reagire con l’uso della forza. Secondo quanto sostiene il citato autore di The wizards of Armageddon l’obbiettivo dei talebani non è prendere il potere da centro, ma “conquistare […] il controllo di diverse aree di territorio per creare uno stato islamico dentro i confini del Pakistan e dimostrare che il governo non è sovrano”.

Visto il crogiuolo di etnie presenti sul campo non è difficile ritenere che l’eventuale affermarsi di uno stato talebano al nord del paese provocherebbe reazioni centrifughe a catena, portando il paese all’implosione. I precedenti storici non mancano. La crisi dell’impero romano d’occidente del IV e V secolo è emblematica. I barbari, da foederati che pagavano tributi per risiedere entro i confini dell’Impero, approfittando della debolezza e della corruzione della corte di Ravenna, cominciarono ad esigere regalie e ampie porzioni di territorio per garantire una breve ed incerta fedeltà. Come è finita questa politica di appeasement degli ultimi imperatori è noto a tutti.

Che Alì Zardari finirà – con maggiore colpa del suo “predecessore” – per vestire i  panni di Flavio Romolo Augusto non è dato sapere. È, però, evidente che vi sono, ormai, tutti i presupposti per un colpo di stato da parte delle forze armate. Il Pakistan, sotto gli occhi impotenti della comunità internazionale, rischia di sfaldarsi portando tutta la regione (Iran e India compresi) all’instabilità. Forse nelle cancellerie occidentali stanno già pensando che la repentina “liquidazione” dell’imbarazzante  Musharraf  non è stato un buon affare.