Dimenticate la “Cool Britannia” perché Londra non è più il centro del mondo
13 Agosto 2009
Il Regno Unito è ancora oggi tra i Paesi che investono di più nella Difesa, ma probabilmente lo sarà ancora per poco. Di recente – mentre il numero dei britannici uccisi in Afghanistan è cresciuto drammaticamente nel corso dei combattimenti estivi – tanto i laburisti quanto i conservatori si sono sentiti in dovere di promettere che non avrebbero ridotto le spese per la Difesa, così da non sottoporre le truppe a rischi ancora maggiori. Ma sul lungo termine, dicono gli esperti, i tagli sono inevitabili.
In un recente studio per il Royal United Services Institute, Malcom Chalmers ha stimato che il bilancio del Ministero della Difesa verrà tagliato dell’11% in termini reali nel corso dei prossimi sei anni. Altri pensano che i tagli saranno maggiori. Ashdown, ex Royal Marine, ha detto che gli annuali 35 miliardi di sterline che costituiscono il budget del Ministero della Difesa dovrebbero essere tagliati almeno di un quarto: una misura che porrebbe la Gran Bretagna maggiormente in linea con le potenze continentali, abituate a spendere meno.
Il ruolo della Gran Bretagna sullo scenario internazionale si ridimensionerà al pari del suo bilancio. Ma un esercito britannico con le casse vuote potrebbe avere importanti implicazioni per la Nato, già indebolita dall’inconsistenza delle sue missioni dopo la Guerra Fredda. Attualmente, la Gran Bretagna è seconda solo agli Stati Uniti in termini di truppe impiegate dalla Nato in operazioni come quella in Afghanistan, e la sua fedeltà alla causa ha incoraggiato altri membri europei della Nato a dare il loro contributo. Un indebolimento dell’impegno britannico causerebbe invece un effetto opposto e pericoloso, e potrebbe persino alterare le alleanze transatlantiche rinforzando il potere relativo della Francia, che solo recentemente è rientrata nella struttura integrata del comando militare Nato.
Già molto prima del ritiro dei britannici dall’Iraq all’inizio di quest’anno, i capi militari statunitensi avevano iniziato a preoccuparsi del crescente malumore interno alla Gran Bretagna. Ora, mentre l’attenzione si sposta sull’Afghanistan e lì cresce il numero dei morti tra i militari britannici, a calare è il sostegno per quella guerra; in un sondaggio di giugno, la maggioranza degli intervistati ha risposto che la guerra è “impossibile da vincere” e che le truppe britanniche dovrebbero essere immediatamente rimpatriate. E non ha certo aiutato il fatto che truppe e ufficiali si siano lamentati della scarsità dell’equipaggiamento. Poche settimane fa, ha causato qualche imbarazzo il fatto che il Generale Richard Dannatt – capo dell’esercito britannico in visita alla truppe schierate nella provincia di Helman – abbia dovuto chiedere un passaggio su un elicottero Black Hawk americano: nessun elicottero britannico era in quel momento disponibile.
Anche il futuro dell’arsenale nucleare britannico, ultimo simbolo di un grande potere, è in balia dell’incertezza. Il sistema missilistico per sottomarini Trident dovrà essere rimpiazzato nel corso dei prossimi dieci anni, per un costo di circa 20 miliardi di sterline. Ma secondo un recente sondaggio condotto da Guardian/ICM, il 54% dei cittadini pensa che la Gran Bretagna dovrebbe rinunciare a tutto il suo deterrente nucleare. Ciò è improbabile, ma potrebbe spingere il prossimo governo a cercare una via meno dispendiosa per estendere il ciclo di vita del sistema missilistico Trident.
Tradizionalmente, il possedimento di un arsenale nucleare è una via per mantenere un posto fisso al Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite: un declassamento del deterrente britannico, dunque, porterebbe le grandi potenze emergenti a chiedere che venga aumentato il numero dei Paesi ammessi nel Consiglio di Sicurezza, a spese dell’Europa e del Regno Unito.
La Gran Bretagna – avendo pagato un enorme prezzo politico per l’hard power esercitato in Iraq e conoscendo i limiti ai fondi che può investire negli armamenti – è ora interessata ad esercitare soft power. Ma sembra che il governo stia indebolendo quello che dovrebbe essere lo strumento principale del soft power: il ministero degli Esteri. Secondo Christopher Meyer, ex ambasciatore britannico a Washington, “l’incoerenza strategica” ereditata dalle guerre in Iraq e in Afghanistan ha portato il ministero alla deriva.
I tagli al ministero degli Esteri lasciano intendere che il corpo diplomatico – un tempo invidiato dal mondo intero – sta perdendo le sue guerre burocratiche. Nel 2004, il ministero ha chiuso 19 uffici esteri su circa 300. In Australia, Nuova Zelanda, Germania, Francia, Spagna e Stati Uniti alcuni consolati sono stati declassati, lasciando sul posto solo personale locale. Da allora, il mistero degli Esteri ha tagliato il suo staff da 6.000 a 4.000 unità. Il bilancio del ministero, quest’anno di 2 miliardi di sterline, dovrebbe essere portato a 1,6 miliardi nel corso del prossimo anno fiscale.
Anche i giorni gloriosi della città di Londra stanno ormai finendo. Il principale simbolo del potere globale della Gran Bretagna – la città vanta mura del periodo romano – ha trovato finanziamenti per alcune delle più antiche e importanti imprese multinazionali, ed ha avuto una maggior influenza sulla finanza globale di quanta Westminster ne abbia avuta in politica estera.
Londra ha preceduto Wall Street nell’individuazione delle aree di maggior crescita, come gli hedge funds, derivati esotici e cose simili. Sfortunatamente per Londra, però, queste aree sono state anche le più colpite dalla crisi globale. Oggi Londra, come New York, attende un insieme di nuove regole nazionali, regionali e globali che sembrano destinate a sminuire il suo ruolo nel mondo nel prossimo futuro. L’Unione Europea ha già stimolato la creazione di una potente commissione per il rischio sistemico che includerà anche la City – anche se la Gran Bretagna è fuori dalla zona euro e non è membro della Banca Centrale Europea. In passato, la Gran Bretagna ha sempre evitato simili interventi, ma ora le cose stanno diversamente. Germania e Francia sembrano voler mettere un freno agli eccessi del capitalismo anglosassone, magari progettando riforme che regolino un miglior scambio di capitali gestiti dalle mani più caute degli europei.
Quando la polvere si sarà posata, rispetto ad altri centri finanziari in Europa e in Asia la City e Wall Street saranno probabilmente meno importanti di quanto siano state in passato. Si potrebbe anche pensare che Londra, principale simbolo del laissez faire, pagherà un prezzo maggiore di Wall Street. Dal “big bang” degli anni Ottanta, Londra ha regolato l’industria bancaria con un tocco leggero – controllando il lavoro dei bancari secondo un insieme di principi, piuttosto che con leggi scritte come negli Stati Uniti. Se le regolamentazioni europee verranno “armonizzate” per includere Londra e se il tocco leggero di Londra si farà un po’ più pesante, secondo Andrew Hilton del Centre for the Study of Financial Innovation la City potrebbe anche “contrapporsi alle istituzioni che sono state regolamentate”. In quel caso, centri finanziari come Singapore e Hong Kong potrebbero spostare i propri investimenti da Londra.
La riflessione della Gran Bretagna sugli ultimi anni dell’impero giunge in un punto naturale della sua storia. La Grande Recessione è giunta a sorpresa ed ha accelerato il trend, ma la crescita di Cina, India e Brasile – e i mutati legami con l’America in declino – sono stati per anni sotto gli occhi di tutti. Mentre l’America inizia a costruire nuovi rapporti con le potenze emergenti in Asia e America Latina – utilizzando perfino i migliori inviati diplomatici per assicurare ai creditori cinesi che Washington pagherà i suoi debiti – la Gran Bretagna non può che sentirsi meno speciale. La nazione si trova nella prevedibile morsa della depressione e dell’irritazione diffusa che accompagna la fine di un’era politica.
Undici anni fa – l’anno dopo la vittoria del partito laburista di Tony Blair, che mise fine a 18 anni di governi conservatori – il nuovo premier parlò a Dublino di una Gran Bretagna che stava “emergendo dal suo malessere post-imperiale”. Era particolarmente ottimista. Suggerì agli irlandesi di vedere nella Gran Bretagna un Paese che si stava “modernizzando, credendo nel suo futuro come una volta credeva nel suo passato”. E quelli, effettivamente, erano davvero dei bei tempi per il Regno Unito. Parole come “New Labour”, “nuova alba” e “new Britain” non stonavano ancora. Oggi Blair ha lasciato il suo incarico da due anni, mentre il regno dei laburisti dura da dodici. Il suo successore, Gordon Brown, è avvolto da un’aura grigia e noiosa. È molto lontano il fermento culturale della “Cool Britannia”, che fece di Londra la capitale del fashion nei primi anni Blair. E nei mesi passati la depressione si è fatta sempre più profonda, a causa di uno scandalo riguardante le spese dei parlamentari che ha alimentato l’insofferenza dei cittadini verso la politica e i politici.
Non sarà facile prendere il posto del primo ministro Brown… Una vittoria dei conservatori alle prossime elezioni – o meglio, una qualsiasi vittoria alle prossime elezioni – avrà ben poco dell’eccitazione che accompagnò la vittoria di Blair dodici anni fa. Allora, la Gran Bretagna si lasciò trasportare dalle innovazioni di Blair perché era davvero in un grande momento: l’economia era appena entrata in un periodo di grande crescita, l’immigrazione arricchiva il Paese, un fervore imprenditoriale si insinuava persino nel cuore della vecchia industria. Oggi è tutto evaporato. La più grande sfida del prossimo primo ministro, e probabilmente l’unica, non sarà tanto quella di ridefinire il ruolo della Gran Bretagna tra le grandi nazioni, quanto rinnovare quello spirito che ha guidato la Gran Bretagna in passato. (fine)
Tratto da Newsweek
Traduzione da Luca Meneghel