Diritti umani violati nell’Iran di Ahmadinejad

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Diritti umani violati nell’Iran di Ahmadinejad

26 Marzo 2007

In occasione della fine dell’anno iraniano, il 21 marzo, il sito web riformista Rooz ha pubblicato un rapporto sullo stato dei diritti umani nell’Iran di Ahmadinejad. E la situazione si presenta tutt’altro che florida. L’escalation nella violazione dei diritti umani degli anni passati ha avuto conferma con l’arresto, nel 2006, di 1100 tra attivisti dei diritti umani e diritti delle donne,  giornalisti e studenti. Molti di loro sono ancora in prigione, nonostante le lamentele delle organizzazioni per i diritti dell’uomo; godono di un bassissimo livello di protezione; sono spesso sottoposti a umiliazioni, sono spesso  bastonati; in alcuni casi non ricevono neanche i viveri quotidiani, cui hanno diritto per legge.

Le condizioni dei prigionieri peggiorano quanto più ci si allontana dalla capitale: “in città come Ahvaz, Urmia, Zahedan ed altre, le condizioni dei prigionieri politici sono molto  più preoccupanti e più gravi di quelli dei loro colleghi incarcerati a Teheran. Contro alcuni di loro sono stati emessi ordini di esecuzione, molti sono stati torturati e molti sono stati trasferiti in prigioni sconosciute”, riporta il sito iraniano. In effetti, il degrado in cui versano le carceri piccole e non centrali è aggravato dal non essere sottoposte ai controlli della Prisons Organization, come la legge iraniana vorrebbe: in queste prigioni periferiche le torture, i linciaggi, le umiliazioni possono sfuggire più facilmente al monitoraggio dell’Organizzazione; carcerieri, militari e forze di polizia possono godere, e di fatto godono, di una maggiore arbitrarietà nell’applicare i propri metodi incivili e illegittimi.

La situazione non è certo migliore nelle scuole: l’attiva gioventù iraniana ha subito, nell’anno appena trascorso, l’espulsione di 300 alunni per motivi politici e il deferimento di dozzine di loro ai consigli disciplinari. Il dissenso studentesco, caratteristica tipica della gioventù iraniana fin di tempi della destituzione dello scià Pahlavi, è spesso duramente represso e nascosto; l’unico caso di malcontento che i media mondiali hanno avuto la possibilità di registrare si è verificato in occasione delle ultime elezioni comunali del dicembre scorso, quando una sessantina di studenti “ribelli” della prestigiosa università Amir Kabir di Teheran ha accolto il presidente Ahmadinejad bruciandone i ritratti, gridando “morte al tiranno” e “fascista”, mostrando cartelli che rivendicavano libertà e diritti.

Altro settore nevralgico, in cui il regime fa spesso sentire la sua mano forte è proprio quello dei media e dell’informazione: il 2006 ha visto una censura crescente nei confronti della stampa, della letteratura, della poesia, dei siti internet. Il Ministero dell’assistenza islamica – incaricato di controllare i media e la produzione intellettuale – che sotto la presidenza Khatami si era trasformato in una istanza di promozione dell’attività culturale, con l’elezione di Ahmadinejad ha recuperato la sua funzione repressiva.

Secondo l’Ong “Reporters sans frontières”, l’Iran “rimane la più grande prigione nel Medio Oriente per i professionisti dei media”: giornalisti iraniani sono messi in prigione o non hanno l’autorizzazione di uscire del Paese, giornalisti stranieri non hanno quella di entrare in Iran. I metodi di repressione utilizzati vanno dalla chiusura dei giornali all’imprigionamento dei giornalisti; dall’intimidazione all’esilio. I siti internet sono costantemente monitorati; il website meydaan.com, che chiedeva l’abolizione della lapidazione contro le donne, è stato vietato; al sito www.tik che criticava Ahmadinejad e il mullah estremista Mezbah Yazdi, è stato bloccato l’accesso; i bloggers sono continuamente sorvegliati.

L’attenzione del rapporto del sito Rooz cade poi su un altro tema fondamentale e preoccupante: l’economia; e anche qui lo scenario è dipinto a tinte fosche. La povertà non ha subito nessuna attenuazione, nonostante le roboanti promesse di Ahmadinejad in campana elettorale: le sue garanzie ai diseredati delle periferie iraniane non si sono tradotte in realtà; la popolazione povera, che vedeva nel presidente un uomo semplice che potesse risollevare le sorti del Paese, non ha subito miglioramenti del proprio tenore di vita. I proventi delle esportazioni del petrolio non sono stati distribuiti, come assicurato, tra le classi medio-basse, ma sono entrati nelle tasche dei russi e dell’ufficiale braccio armato dell’Iran sciita, Hezbollah. Il messaggio populista del presidente-pasdaran sta fallendo e tra la popolazione serpeggia il malcontento.

La nomenclatura politico-religiosa ha concentrato tutta la sua attenzione sull’obiettivo atomico, ottenendo come risultato l’ostilità del mondo intero – e di conseguenza una sempre minore affluenza di investimenti esteri vitali per l’economia iraniana – le due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e l’arrivo di una terza, con sanzioni, sembrerebbe, più dure e radicali delle precedenti. Ma mentre Ahmadinejad mantiene il piede fermo sull’acceleratore della politica estera, nella sua stessa barca sembrano aprirsi delle falle: nella maggioranza parlamentare filo-presidenziale sarebbe nata una corrente di “conservatori creativi”, desiderosi di “criticare il governo”; le critiche alla verbosità presidenziale pubblicata su Jomhouri Islami, il quotidiano di Khamenei, dimostrerebbe lo scollamento tra i due; un sondaggio condotto dalla Islamic Republic of Iran Broadcasting (IRIB), del quale dà notizia il sito iraniano Rooz, dimostrerebbe che è crollato, in un anno, il favore degli iraniani nei confronti del presidente Ahmadinejad – nel 2005 un sondaggio mostrava che il 60% delle persone approvava il comportamento dell’amministrazione del presidente, mentre nel 2006 ad una identica domanda il 65% degli intervistati si è detto non soddisfatto; il disamore della gioventù iraniana, che ha più volte, in passato, contribuito pesantemente a cambiamenti profondi e determinanti in Iran, sarebbe in costante ascesa. Tutti piccoli segnali che tengono vive le speranze di coloro che vedono in un cambiamento di regime ai vertici della Repubblica islamica un traguardo decisamente positivo.