“Distruggiamo Trump!”, e spara contro i Repubblicani. Ma in America non è un giorno di ordinaria follia
14 Giugno 2017
“Trump traditore deve finire in carcere”, “distruggiamolo insieme ai suoi compari”. Sono alcune delle frasi che il 66enne James Hodgkinson aveva scritto su Facebook nei mesi scorsi prima di acquistare un fucile semiautomatico con cui ha ferito gravemente uno dei leader repubblicani al Congresso e altre quattro persone. L’uomo è stato ucciso dalla polizia. Quelle frasi non avevano insospettito nessuno, negli Usa dove, come vedremo, sembra ormai cosa normalissima inneggiare all’assassinio del presidente.
E’ stato proprio il presidente Trump a dare l’allarme, lanciando un appello all’unità nel Paese – ma l’episodio, che avrebbe potuto trasformarsi in una strage, è indicativo del clima di odio politico che si respira in America da quando il Don è sceso in campo vincendo le elezioni. Il tema non è tanto che Hodgkinson durante la campagna elettorale fu tra i sostenitori del socialista Bernie Sanders, il rivale di Hillary Clinton alle primarie democratiche, bensì che il partito democratico a tutti i livelli, ed anche quello repubblicano (in modo compatto almeno fino alla vittoria di Trump alle primarie), insieme ai grandi media, ai giornaloni, alle star della tv e del cinema, hanno dissodato il terreno per gesti sanguinari come quello accaduto nel campo da baseball in Virginia, a due passi da Washington.
Hodgkinson che si mette a sparare è il culmine di una campagna denigratoria iniziata nelle organizzazioni collaterali al partito democratico, dove si istruivano persone bisognose o con disabilità mentali a presentarsi in prima fila ai comizi di Trump per contestarlo e scatenare la rissa, dando poi la colpa ai “trumpisti violenti”. La campagna è continuata dopo le elezioni, con le manifestazioni organizzate a tempo di record a Washington contro Trump, “non è il mio presidente”, e proseguite con gli scontri nelle università americane, una lunga serie di episodi in cui gruppi di “fascisti liberal” scatenati cercavano di tappare la bocca ai blogger filo Trump.
La campagna d’odio si è quindi propagata sul web e in tv: nelle settimane scorse una celebre comica e conduttrice televisiva americana ha postato su Facebook una foto in cui si vede lei tutta orgogliosa mentre brandisce in una mano la testa del presidente, mozzata in stile Isis. La donna ha fatto ammenda quando ormai il danno era fatto. Per non dire della versione del “Giulio Cesare” andata in scena nei teatri americani in questi giorni, dove a finire pugnalato dai congiurati non è il divo Giulio ma sempre il Don. Insomma non veniteci a raccontare che il problema sono i sostenitori di Bernie Sanders, il quale almeno ha subito condannato la sparatoria con fermezza.
La responsabilità della violenza che si vive negli Usa è quella di un intero sistema politico, mediatico e internettiano che finisce per essere complice, simbolicamente o meno, di quei killer che forse sentendosi legittimati dal clima dominante e magari pensando che saranno ricordati come degli eroi si mettono a sparare contro i rappresentanti del popolo e gli agenti di polizia. Ma non è Isis e neppure un giorno di ordinaria follia.