Domani l’Onda Verde sfida ancora il pugno di ferro del regime
19 Febbraio 2011
Si allarga la protesta che sta infiammando Africa e Medio Oriente, ed arriva fino a quello che può essere considerato il precursore delle manifestazioni di questi giorni, ovvero l’Iran. Era l’estate del 2009, infatti, quando gli iraniani per primi diedero il via alle proteste contro il regime dei mullah, la famosa Onda Verde che grandi speranze aveva acceso nel popolo iraniano (e non solo), un po’ meno nelle cancellerie occidentali, soprattutto quella americana, che non seppe cavalcare la protesta democratica. Il Presidente Obama preferì rimanere tiepido, nella convinzione che una posizione accomodante di Washington nei confronti del governo di Teheran fosse funzionale ai suoi progetti di dialogo. Oggi, anche l’Amministrazione americana sembra avere finalmente capito che la politica della mano tesa è fallita, e le prime reazioni nei confronti delle manifestazioni contro il regime khomeinista indicano che gli Stati Uniti potrebbero aver deciso di cambiare rotta. Dopo Ben Alì e Hosni Mubarak, dunque, verrà la volta di Ahmadinejad e Khamenei? Non così in fretta, purtroppo. Le differenze tra la varie situazioni sono molteplici, tutte a sfavore dei manifestanti iraniani.
Come rileva il Wall Street Journal, “il regime di Teheran è molto diverso da quello egiziano o tunisino perché in Iran non c’è un solo dittatore, ma un sistema dittatoriale. Lo stesso Ahmadinejad non è che la punta di un iceberg”. Oltretutto, in Iran “l’esercito è troppo marginalizzato per poter giocare un ruolo di mediatore come in Egitto e in Tunisia. Il corpo dei Guardiani della Rivoluzione detiene il vero potere non solo militare ma anche economico”. “In Egitto l’esercito è formato da coscritti e si regge sui finanziamenti americani, i 10 milioni di componenti delle milizie Basiji sono controllati dai Guardiani della Rivoluzione (composti da circa 120.000 unità)”, sottolinea Katherine Butler su The Independent. “L’idea che i Guardiani possano farsi da parte in favore di una transizione pacifica è semplicemente fantasiosa”, conclude la Butler.
D’altra parte, la capacità repressiva della macchina militare del regime è ormai, purtroppo, assai nota. Come nel 2009, la protesta venne repressa nel sangue, così oggi i primi tentativi di manifestare contro i mullah, al grido di “Morte al dittatore” e “Mubarak, Ben Ali, adesso è l’ora di Sayyid Ali!” (riferendosi alla Guida Suprema Ali Khamenei), sono state affrontate a suon di manganelli e lacrimogeni, con un morto e centinaia di feriti, senza contare il numero di arresti operati. Anche perché, a differenza di quello egiziano, il regime khomeinista iraniano fonda la propria legittimazione sui principi dell’Islam, quindi non può esservi alcuno spazio di mediazione: o con Allah o contro di esso, e per chi si mette contro Allah l’unica punizione possibile è la morte.
“La ferocia delle misure repressive contro i manifestanti nelle strade di Teheran è la terrificante dimostrazione della volontà del regime di rimanere al potere”, osserva ancora la Butler, “anche se al contempo ne dimostra l’estrema debolezza”. Quella iraniana, in effetti, è un’autocrazia ancora molto forte nei palazzi, ma ormai molto debole tra la gente. E proprio questa è la speranza del popolo iraniano, composto in maggioranza da giovani con un elevato livello di istruzione (non a caso le rivolte partono sempre dall’università di Teheran). Occorre anche considerare che nella società iraniana vi è una middle class sviluppata, vero motore di ogni possibile cambiamento, che sente sempre più l’effetto della crisi economica aggravatasi dopo che l’ONU ha votato il nuovo round di sanzioni contro il programma nucleare dei mullah.
Le basi sociali per una rivolta, dunque, ci sarebbero, ma senza un forte sostegno esterno le speranze che possano rompere il sistema di potere costruito dal regime rimangono deboli. Per questo, dice Ray Takeyh sul Washington Post, “è bello sentire Hillary Clinton ed il Presidente Obama esprimere in modo chiaro il loro supporto ai manifestanti, al contrario di quanto fecero nel 2009. Alla fine la rivoluzione libererà l’Iran, ma nel frattempo gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno bisogno di elaborare un strategia per isolare e mettere sotto pressione i mullah, e questa strategia dovrà passare necessariamente attraverso un supporto attivo e pubblico a coloro che manifestano democraticamente”. L’idea che fosse possibile trovare una soluzione attraverso la via diplomatica si è rivelata per quello che era, una chimera di fronte alla quale la comunità internazionale non può continuare ad illudersi, ma deve rendersi conto che l’unico modo per disinnescare la Repubblica Islamica e mettere fine al regno di terrore che ha creato è investire sull’opposizione democratica e sulla fame di libertà del glorioso popolo iraniano.
Il prossimo appuntamento è per domani, domenica 20 febbraio, giorno nel quale il “Coordinating Council of the Green Path of Hope”, un’organizzazione vicina ai leader dell’opposizione Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, ad oggi ancora agli arresti domiciliari, ha indetto una manifestazione per commemorare la morte di due persone negli scontri del 14 febbraio a Teheran. Vedremo se ancora una volta gli iraniani avranno la forza ed il coraggio di sfidare l’ira del regime, e se potremo finalmente dire che la campana sta suonando per i mullah.