Don Milani e i “maestri” del ’68. Così il prete rosso si fece mito
28 Giugno 2007
Attraverso una macabra e funeraria liturgia laica, in Italia non passa giorno che non si tenda a ricordare qualsiasi anniversario “rivoluzionario” con quello spirito di marca giacobina proprio della sinistra, ma dal quale non è immune una certa falsa destra.
L’anno che verrà sarà quello del grande revival del Sessantotto, sarà il quarantesimo anniversario della rivoluzione sessantottarda e naturalmente verrà intentato a quel tristo periodo una sorta di «processo di beatificazione», la vittoria di Prometeo sull’Olimpo.
Di quello che avverrà abbiamo già le prime avvisaglie: terroristi assassini più o meno famigerati che non si sentono in dovere di chiedere scusa alle famiglie delle loro vittime, ma che salgono in cattedra nelle Università per rivendicare i loro crimini e per ergersi a giudici dei così detti «benpensanti» che si ostinano a condannare quegli stessi delitti che scaturirono dal «pensiero» del Sessantotto.
A Livorno, nonostante gli studenti abbiano disertato la sua «lezione», c’è stato perfino chi ha proposto di dare la cittadinanza onoraria a Barbara Baraldini…
L’ex capo delle Brigate Rosse, Renato Curcio – spesso in villeggiatura qui, a Firenze, ospite della parrocchia delle Piagge -, all’Univerità di Bari ha risposto a uno studente che gli domandava cosa fosse cambiato dal ’68 ad oggi: «Allora avevo quarant’anni di meno!».
Sono rimasti così questi ex giovanotti che non vogliono invecchiare: ora hanno i dolori reumatici, la pancia e il doppio mento, ma non mollano i loro ricordi degli antichi “arnesi”: chiave inglese e P38.
Dunque l’anno prossimo prepariamoci a sorbirci, per 365 giorni, con sbornie di retorica, la rievocazione del Sessantotto, di quell’angoscioso periodo in cui fu decretata (anche da parte di ampi settori della gerarchia ecclesiastica filocomunista!) la «morte di Dio» («Dio è morto» si cantava nelle balere) e la morte del padre (da allora drammaticamente la figura paterna è diventata sempre più marginale), la liberazione dai vari tabù (ricordate che il libro che andava per la maggiore tra gli adolescenti – e non solo tra quelli di sinistra – era «Porci con le ali» della Lidia Ravera…) e la distruzione di ogni legittima autorità: «L’obbedienza non è più una virtù – fu scritto -, ma la più subdola delle tentazioni ».
Un assaggio di quello che dovremo sentire e, ahimè, subire il prossimo anno ci viene intanto servito in anteprima con le “celebrazioni” (naturalmente laiche) del quarantesimo della morte di don Lorenzo Milani (dimenticando che la sua morte – e non soltanto la morte – è stata celebrata pubblicamente, ogni anno, con trombe, tromboni e trombette…).
Il «prete rosso» il cui mito fu portato avanti dalle maestrine d’allora (le future «mammine sessantottine!») che andavano in fregola di fronte alle teorie del convertito che viene «esiliato» sui monti del Mugello dai suoi superiori.
Ma Don Milani trovò sulle montagne dell’Appennino toscano il proprio “habitat”, (non dimenticò nemmeno per un momento di essere il virgulto di quella borghesia illuminata e laicista che, in definitiva, lo aveva forgiato e che lui non rinnegherà mai nonostante le invettive e gli slogan filomaoisti!), circondato dalle «menti» più famose del sinistrismo italiano si proclamò maestro dei diseredati, una sorta di moderno Socrate che si “sfogava” nel fare la cosa peggiore che si potesse allora fare: il «conformismo dell’anticonformismo ». Per cui godeva nello stupire dicendo parolacce, nel mandare anatemi al suo Vescovo («una Curia che ascolta le spie ed esilia i santi») pretendendo, poi, di avere un «pubblico riconoscimento » ed esser fatto «monsignore».
Don Lorenzo Milani soffiò, insomma, sulle ceneri di un fuoco, non mai sopito in quelle zone che già avevano visto scatenarsi il terrore con la «caccia all’uomo» nel dopoguerra, dell’invidia, della lotta di classe e delle vendette fratricide.
Cercò di coniugare, con incredibile saccenteria, il verbo di Marx con quello di Cristo… e tutta questa demagogia riuscì a infiammare le menti più deboli, e a dominare i cervelli di una certa, seppur marginale, classe insegnante che aveva una qualche infarinatura di «antiautoritarismo» attinta, alle Magistrali, in qualche paginetta di Rousseau, di Comenio o del Dewy.
Anni orsono, gli alunni di una scuola media di Paceco (Trapani), sollecitati dal loro professore di lettere Carmelo Fodale, che fu mio collega alla fine degli anni Sessanta nella scuola media di Borgo San Lorenzo, mi chiedevano – «in quanto protagonista» – una «testimonianza su Don Milani» che, poi, sarebbe stata pubblicata, in un volume, naturalmente insieme alle «testimonianze» (di segno opposto) di altri, tra cui l’allora sindaco di Borgo, Bruno Panchetti, e l’allora segretario del Pci del Mugello, Siro Cocchi (recentemente scomparso) che, tra l’altro, furono due dei miei pochi amici nei cinque anni che sedetti sui banchi dell’opposizione nel comune di Borgo San Lorenzo.
Risposi ai ragazzi di Paceco che non mi sentivo «né testimone né protagonista di quegli anni e di quegli avvenimenti » e che, comunque, la mia «testimonianza » non avrebbe aggiunto né tolto nulla a quanto Don Milani aveva detto (e soprattutto scritto) e a quanto su Don Milani era stato scritto… ad abundantiam.
Mi limitai a segnalare ai ragazzi un’opera (dalla parte di Don Milani) molto documentata di Neera Fallaci: «Dalla Parte dell’Ultimo». E altre due opere introvabili (quindi non dalla parte di Don Milani): la prima del professore fiorentino Domenico Magrini, «Don Milani: trame sinistre all’Ombra dell’altare», e l’altra «Incontri e scontri con Don Milani » del grande teologo domenicano Padre Tito S. Centi, una silloge di lettere scambiate tra i due. Le due opere stampate dalla minuscola casa editrice di Brescia «Civiltà ».
Dissi anche ai ragazzi della scuola media di Paceco che li avrei incontrati volentieri quando sarebbero venuti a «vedere» la tomba di Don Lorenzo e che, ben volentieri, avrei loro mostrato il mio Mugello e la mia Firenze. (I puntata – continua…)
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