Donald Trump e quella politica del rischio calcolato
17 Aprile 2017
di Daniela Coli
Apocalisse rimandata: il nuovo, temutissimo missile nordcoreano è esploso dopo pochi secondi, mentre Mike Pence stava arrivando a Seul. Improbabile l’intelligence americana non conosca il reale potenziale missilistico del terribile Kim. E inverosimile che Trump inviasse il suo vice a Seul il giorno dell’inizio dell’Apocalisse. Pence ha annunciato l’arrivo a Seul e un tour in Asia venerdì 14 aprile su Twitter, mentre i media occidentali strillavano che stava per scoppiare la più letale guerra della storia. Sarebbe bastato dare notizia dell’arrivo di Pence a Seul per Pasqua per stoppare il grande “war drama” andato in onda sui media. O ricordare, come sanno tutti in Asia, che dal 2009 sono diminuiti gli aiuti economici ricevuti dal Nord Corea per lo smantellamento di un insignificante programma nucleare e Kim è ansioso di riprendere i negoziati. Questo ci dice qualcosa di fake news, ma anche di politica.
La vittoria di Trump ha scioccato l’America e l’Europa di Hillary: il pericolo populista, il tremendo Bannon col Rasputin Dugin, avrebbe precipitato il pianeta in incubo peggiore del terzo Reich, perché Hitler si sarebbe alleato con Stalin. No hope per il pianeta e di fronte a un’opposizione interna sempre più aggressiva, Trump ha rinunciato a Flynn, ridimensionato Bannon e ha cominciato a essere imprevedibile. L’attacco alla base siriana di Shayrat il 6 aprile (59 missili per distruggere 8 aerei), Assad must go, la Nato non più obsoleta, il lancio della Moab, la “madre di tutte le bombe” sull’Afghanistan, Wikileaks intelligence nemica (secondo il capo della Cia), infine l’invio di un’armada (già il nome avrebbe dovuto suggerire qualcosa) per attaccare il Nord Corea.
A parte il lancio della Moab contro Isis, in una settimana, Trump ha fatto e detto il contrario di quanto aveva promesso. “Brexiter” ed euroscettici scioccati, liberali americani ed europeisti alle stelle. “Il gendarme del mondo è tornato” ha titolato il Corriere, come se fossimo negli anni Cinquanta e non fosse caduto il muro di Berlino. Le critiche a Donald Trump non sono cessate, però. Le più ricorrenti: non ha strategia e la guerra non va lasciata in mano ai generali. Le più serie, quelle dei britannici: il Telegraph ha ironizzato sulla pericolosità di Kim, mentre Patrick Cockburn sull’Independent ha invitato Trump a finire le guerre iniziate in Medio Oriente e sconfiggere Isis, prima di iniziarne altre.
Certo, il Trump “shock and awe” globale di questa settimana ha impressionato. E’ impazzito? È prigioniero del “deep state”, lo stato profondo, i poteri forti? Fa “fake wrestling”? Per Niall Ferguson, Trump ha scelto il “brinkmanship”, la politica del rischio calcolato, come spiega lo storico sul Sunday Times. Il brinkmanship fu inventato nel 1950 da John Foster Dullas, segretario di Stato del presidente Dwight Eisenhower, un generale, ed è la capacità di arrivare sull’orlo della guerra, senza entrare in guerra. Per Foster Dulles, l’unico modo di evitare una guerra, è riuscire a padroneggiarla e non tentare di sfuggirla.
Continueremo senz’altro ad avere un Trump imprevedibile, ma c’è senz’altro da avere più paura di giornalisti e intellettuali liberali come Thomas L. Friedman, che sul New York Times del 12 aprile ha chiesto a Trump di cessare di combattere Isis, perché, sì, Isis fa stragi tremende in Europa come in Medio Oriente, sgozza i nemici, sono dei bruti, ma in Siria e in Iraq potrebbe essere un formidabile esercito per eliminare Assad, l’Iran e gli Hezbollah filosciita, come le milizie sciite in Iraq. Naturalmente, Friedman se ne infischia altamente dei cristiani siriani che sarebbero subito sgozzati da Isis, come del regno di terrore del Califfato.
Per disintegrare Siria, Iran, Russia e Hezbollah bisogna giocare sporco: perché Trump non lo fa? Hillary, dicono, voleva usare Al Qaeda, e questi sarebbero i valori dell’Occidente, che, secondo i media mainstream, Trump avrebbe tradito…
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