Dopo Barack Obama sarà più difficile conservare “il primato Americano”
08 Febbraio 2010
Ogni Paese conosce fasi della sua Storia in cui prevalgono l’espansione militare, quella dei suoi valori culturali e della potenza economica, e altre in cui il governo nazionale privilegia le questioni interne per offrire i progressi raggiunti in Patria come modello al resto del mondo. I presidenti che hanno guidato gli Stati Uniti, spiega Foreign Policy, abbracciano una o l’altra scuola di pensiero, o in alternativa costruiscono delle coalizioni per bilanciarle. Alcuni sono riusciti a trovare un equilibrio prima che si spezzasse – è il caso di George W. Bush; altri lo stanno ancora cercando per scongiurare un fallimento che fino a poco tempo fa sembrava impensabile, come Barack Obama.
Bush non pensava di dover affrontare la Guerra al Terrore quando si insediò alla Casa Bianca ma per otto lunghi anni ha saputo guidare un’alleanza fra l’ala più idealista e minoritaria del movimento conservatore – i neocons pronti a esportare i valori della democrazia in punta di baionetta – con la base della destra repubblicana, più scettica verso l’interventismo hot degli Usa in politica estera e, nel profondo, contraria all’idea di spedire giovani americani in luoghi sperduti del mondo per rovesciare il dittatore di turno. Non che i “jacksoniani” come Sarah Palin o il pubblico di Fox News siano gente arrendevole, hanno alle spalle le guerre indiane e ancor prima la rivoluzione contro la potenza coloniale inglese, ma in passato la missione era difendere il suolo americano, conquistare la Frontiera, preservare i confini e la sicurezza nazionale. Dal secolo scorso invece il ruolo degli Usa è profondamente cambiato acquistando sempre più peso, obblighi e responsabilità nello scacchiere internazionale.
Dopo l’11 Settembre, la destra del movimento conservatore appoggiò la guerra in Afghanistan perché voleva dare la caccia ai pericolosi assassini che avevano ucciso centinaia di civili innocenti in modo plateale e sommario. Lo storico Max Boot scrisse che serviva una posse capace di snidare Al Qaeda come accadeva nel selvaggio West, quando i cittadini prendevano il Winchester e montavano a cavallo per inseguire balordi e criminali. Era un messaggio a cui jacksoniani prestarono ascolto. Ma quando Bush dall’Afghanistan decise di passare in Iraq la base conservatrice iniziò a dubitare della “pistola fumante” che non saltava fuori, e nel momento in cui tornarono in auge parole d’ordine come regime change e nation building la fiducia e il consenso verso il Presidente si affievolì. I jacksoniani hanno giudicato spesso l’apparato ideologico neoconservatore come una forma di avventurismo in politica estera, ma nonostante gli attriti sono rimasti fedeli a Bush fino all’ultimo, pur di salvaguardare la sicurezza dei militari al fronte e conservare la credibilità degli Usa a livello internazionale.
Anche se l’attuale Presidente viene considerato un centrista pragmatico, in gioventù Obama è cresciuto nella sinistra liberal del partito democratico, incline a un disimpegno militare su larga scala degli Usa nel mondo. Da qui il surge diplomatico del 2009, la mano tesa al regime iraniano, il discorso del Cairo, l’inchino al monarca saudita, la stretta di mano con Chavez, gli accordi sul disarmo con Mosca, il G2 con la Cina e il G20 allargato alle potenze emergenti. Per Obama il problema non è il regime iraniano o quello della Corea del Nord in sé e per sé, ma le tensioni che Pyongyang e Teheran hanno provocato nelle rispettive aree strategiche; se i vecchi stati-canaglia fossero solo un po’ più malleabili, insomma, il Presidente non gli chiederebbe mai un regime change, perché a lui basta ottenere dei successi diplomatici e preservare l’immagine della superpotenza americana, il "primato" degli Usa, anche se nella sostanza sta ripiegando. “Questa guerra è finita – ha detto parlando dell’Iraq all’Unione – e tutte le nostre truppe stanno tornando a casa”.
Anche Obama, come il suo predecessore, ha riunito intorno a sé una coalizione che comprende forze interventiste. Sono quei democratici che guardano all’America come a un Paese che può e deve promuovere la democrazia e difendere i diritti umani là dove vengono minacciati, nel rispetto e con l’avvallo della comunità internazionale. E’ lo spirito “wilsoniano” che ha spinto Obama a incontrare il Dalai Lama sottovalutando il prezzo diplomatico che avrebbe versato alla Cina con una mossa del genere (Pechino può esercitare il veto conto le sanzioni all’Iran); la stessa ispirazione che lo guida nella conduzione della guerra al terrorismo (ha ricordato che “Nel 2009 centinaia di combattenti e affiliati di Al Qaeda, compresi numerosi comandanti, sono stati catturati o uccisi, in un numero maggiore a quello del 2008”). Per lungo tempo l’America stentò a riconoscere il ruolo che le era stato assegnato dalla Storia al tramonto dell’impero coloniale inglese, ma due guerre mondiali, il Nazismo, il Comunismo, il Fascismo Islamico, hanno dimostrato ai leader americani che in certe situazioni storiche non è possibile “non intervenire”. Il problema di Obama è che il suo innato "jeffersonismo" finisce per entrare in rotta di collisione con l’eredità wilsoniana, creando dei paradossi logici come l’Afghanistan: “Stiamo incrementando il numero delle nostre truppe e addestrando le forze di sicurezza afghane in modo che possano iniziare a prendere il controllo del Paese nell’estate del 2011, e che i nostri soldati possano iniziare a tornare a casa”. Rinforzi e ritirata nella stessa frase. Sembra un gioco di parole.
Ed è qui che entra in scena il Presidente democratico e premio Nobel per la Pace Jimmy Carter, la grande nemesi di Obama. Anche Carter, come Obama, era un jeffersoniano, ma anche lui sentiva il richiamo della eredità di Wilson. Durante il suo mandato restituì ‘Panama ai panamensi’ e negoziò gli accordi Salt-II con Breznev, per poi spingere l’acceleratore della Guerra Fredda sponsorizzando i mujaheddin afghani contro i sovietici e introducendo una politica che sarebbe stata proseguita dal successore Reagan. La “Dottrina Carter” prevedeva un ampio ingaggio degli Usa in Medio Oriente che sfociò negli storici accordi di Camp David fra Israele e l’Egitto, ma anche anche nella Rivoluzione khomeinista che sarebbe costato la rielezione al presidente.
Carter si era alienato lo Shah Reza Pahlavi criticando l’appoggio offerto dagli Usa al colpo di stato del 1953 contro il primo ministro Mossadeq, e rimettendo in discussione la politica americana verso Teheran (anche per Obama fu un errore rovesciare Mossadeq). Lo Shah fuggì dall’Iran per scampare agli ayatollah e Carter si rifiutò di offrirgli asilo politico. Quando finalmente si decise a farlo, un giovane Ahmadinejad e altri Guardiani della Rivoluzione, per rappresaglia, presero 52 americani in ostaggio nella ambasciata Usa provocando uno tsunami diplomatico che sarebbe durato due anni. Gli ostaggi furono liberati nel 1981, dopo una fallita operazione delle forze speciali ordinata da Carter che costò la vita a 8 americani, ma ormai alla Casa Bianca era arrivato Reagan. Gli storici non sono stati teneri con Carter e la sua ondivaga e tutto sommato sfortunata politica estera.
La “Sindrome di Carter” rischia di contagiare anche Obama. Che cosa accadrebbe se dopo aver coinvolto gli arabi e i musulmani in un “nuovo inizio”, dopo aver riaperto il dialogo diplomatico con Teheran senza le precondizioni minime imposte da Bush, dopo aver lasciato l’Iraq e l’Afghanistan, e mandato messaggi rassicuranti a Mosca e Pechino, il mondo islamico non rispondesse all’appello, la mullocrazia iraniana si dotasse dell’arma atomica, Baghad e Kabul oscillassero in un pericoloso vuoto di potere, e le potenze emergenti o “ritornanti” si comportassero in modo ostile? Forse non è una possibilità ma quello che sta già accadendo. “Al loro meglio i jeffersoniani hanno saputo esprimere un necessario elemento di cautela e compressione della politica estera americana, per prevenire quello che lo storico americano Paul Kennedy ha definito imperial overstretch, e assicurarsi che i fini dell’America siano proporzionati ai suoi mezzi. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una visione del genere”, conclude Foreign Policy, eppure se il progetto di Obama dovesse fallire il Presidente lascerà una America più debole al suo successore, un Paese che a quel punto sarà costretto a muoversi con meno cautela e prudenza negli agitati mari della politica internazionale.
“Se i leader iraniani continueranno a ignorare i loro obblighi, non devono avere dubbi: potrebbero trovarsi di fronte a crescenti conseguenze. Questa è una promessa”, ha detto Obama a proposito dei negoziati sul nucleare. Il destino dell’America “giusta”, ha aggiunto, è di stare dalla parte delle donne che marciano per le strade dell’Iran. “Per l’America bisogna sempre stare dalla parte della libertà e della dignità umana. Sempre”. Ma se misuriamo il tempo dedicato ai temi di politica estera rispetto a quelli di politica interna nel primo Discorso dell’Unione, il rapporto è di 1 a 10.