Dopo Eluana il Pdl è alla ricerca di un compromesso tra laici e cattolici
18 Novembre 2008
Benedetto della Vedova che attacca la Roccella, Veronesi contro la Binetti, i cattolici integralisti contro i laici integralisti, i radicali che non si parlano coi teodem, i teocon che pensano che i cattolici siano più confessionali della Chiesa. Nonostante l’ottimismo di chi sta lavorando alla legge sul fine vita (o testamento biologico che dir si voglia), una cosa è chiara. Oggi il Pdl si trova di fronte a un bivio: cadere nella trappola della paralisi che ha contraddistinto su questioni della biopolitica il vecchio governo Prodi o cercare alla disperata la quadra sulla questione sul fine vita tracciando un compromesso che tutto sommato accontenti (quasi) tutti.
I punti controversi sono molti: a chi e come rilasciare le proprie volontà in caso di stato di incapacità di intendere e volere del paziente; quali trattamenti considerare cure; fino a che punto conta il principio di autodeterminazione del malato e quale capacità decisionale spetta al medico curante; che rapporto deve esserci tra la libertà di cura del paziente e il suo diritto alla cura. Se si vorrà finalmente colmare il vuoto legislativo che ha consentito ai giudici della Cassazione di decidere per Eluana, su questi punti laici e cattolici di entrambi gli schieramenti dovranno necessariamente trovare un accordo. I testi su cui lavorare depositati in parlamento sono almeno dieci, e, a giudicare dalla dichiarazioni pubbliche scatenate dal caso Englaro, le speranze di giungere ad una soluzione non sono molte. Se accordo sarà, dovrà esserci su un terreno comune d’intesa, su linee di principio condivise da laici e cattolici o da una maggioranza che superi le differenze di schieramento.
Per ora nelle commissioni si sta lavorando, e l’obiettivo non è di quelli impossibili se già nel 2003 laici e cattolici del Comitato nazionale di bioetica erano riusciti ad approvare all’unanimità un testo sul fine vita. C’è chi sostiene che gli steccati possano essere superati proprio seguendo quella linea. Un testo in cui già si parlava di dichiarazioni anticipate di trattamento, rilasciate da chiunque sia maggiorenne al proprio medico curante o a un notaio per dare informazioni in merito alle proprie scelte terapeutico-sanitarie e di fine vita. La linea è chiara. Le dichiarazioni devono essere date per iscritto e hanno una durata prestabilita, per essere indicative in un tempo ragionevole entro cui una persona può decidere di cambiare idea. Sono revocabili o emendabili in qualsiasi momento. E vincolate al consenso informato del paziente da parte del medico, che ha la responsabilità, quindi, di fornire al paziente tutte le informazioni necessarie a comprendere la condizione cui va incontro nel caso in cui si verifichino condizioni estreme.
Sono previsti vincoli strettissimi per evitare situazioni di eutanasia attiva o passiva e il divieto assoluto nel caso di richiesta di sospensione di idratazione e alimentazione. Si tratta, di fatto, di garantire l’attivazione, la non attivazione o sospensione di specifici trattamenti terapeutico sanitari che possono essere previsti per legge. Di accettare se essere sottoposti a terapie sperimentali altamente invasive e ad alto rischio, se rinunciare a qualsiasi forma di accanimento terapeutico, così come alla donazione dei propri organi. In ogni caso, attraverso le Dat il paziente può prevedere la nomina un fiduciario che se ne prenda cura in caso di incapacità e che concordi con il medico il trattamento terapeutico-sanitario più indicato per il suo bene. Spetta comunque al medico la decisione finale. Nel rapporto fiduciario tra medico e paziente, la libertà del personale sanitario è l’ultima a morire, anche nel caso ci sia una divergenza di opinioni tra il parere del medico e quello del fiduciario.
Intanto il caso Englaro non sembra affatto chiuso, nonostante chi ha accolto come una sentenza liberatoria quella della Cassazione abbia ora invocato il silenzio sugli ultimi giorni di Eluana.
Proprio ieri, presentando il glossario sullo stato vegetativo messo a punto dal gruppo di lavoro di esperti, Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, è tornata sull’argomento: i pazienti in condizione vegetativa sono persone in stato di gravissima disabilità, ma tale stato non può mai essere definito irreversibile poiché nessuno può avere totale certezza dell’inesistenza di possibilità di recupero. E in merito al dolore? “Nei pazienti in stato vegetativo, come nel caso di Eluana – ha affermato il neurologo Gianluigi Gigli dell’Università di Udin – nessuno è ad oggi in grado di dire esattamente se la percezione del dolore sia del tutto assente. Questi pazienti – ha sottolineato Gigli – di solito rispondono per riflesso a stimoli dolorosi, tuttavia la fisiologia del dolore è attualmente imperfettamente conosciuta e in questo campo non è solo coinvolta la funzionalità della corteccia celebrale. Probabilmente – ha continuato – il dolore non è da questi pazienti avvertito allo stesso modo in cui noi lo avvertiamo, ma nessuno ad oggi è in grado di dire esattamente se la percezione dolorosa sia del tutto assente”. A conferma di ciò, ha precisato Gigli, “vi è il dato che per questi pazienti è comunque prevista la sedazione”. Chissà se il padre di Eluana tutto questo lo sa.