Dopo il caso-Visco, il governo Prodi non ha più una maggioranza politica

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Dopo il caso-Visco, il governo Prodi non ha più una maggioranza politica

04 Ottobre 2007

C’era una volta la
“maggioranza politica”. Formidabili quei giorni. L’opposizione sosteneva con
fermezza (sentendosi inizialmente confortata da un’autorevole esternazione del
presidente Napolitano, poi chiarita in senso diverso dal Quirinale) la necessità
per Prodi di contare sul voto di 158 senatori eletti come soglia minima per la
credibilità e la legittimità del proprio mandato. E il centrosinistra
sbandierava orgogliosamente la propria “autosufficienza” ogni volta che  – tra 
patemi, affanno e batticuore – riusciva per un soffio a raggiungere la fatidica
quota.

Altri tempi, dicevo. Perchè adesso quelle polemiche e quei discorsi
sembrano finiti in archivio o addirittura nel dimenticatoio. Lo sconcertante
epilogo del grottesco caso-Visco, infatti, ha inequivocabilmente fornito un
doppio verdetto: il governo Prodi non ha più una maggioranza e nemmeno una
politica, ammesso e non concesso che le abbia mai avute. Come valutare
diversamente il responso di Palazzo Madama, dove la sedicente Unione ha raccolto
appena 157 voti solo grazie all’aiutino di due senatori a vita? La matematica
non è un’opinione: tra i membri del Senato eletti dal popolo sovrano, ormai, il
centrosinistra si rivela minoranza non solo in senso politico, ma perfino sul
piano numerico.

Soltanto Prodi continua a fingere che tutto vada bene e ripete
la sua parola d’ordine: tranquilli, tranquilli, tranquilli. Sempre più bravo a
imitare Corrado Guzzanti che lo imita nel famoso e memorabile schetch del
presidente-semaforo, il Professore commenta: “Il voto su Visco è andato come
doveva andare”. Già, è andato come doveva andare: male, per il centrosinistra.
Una pseudomaggioranza che non presenta propri ordini del giorno per non
rischiare una Caporetto (concedendo il bis della mozione sulla Rai ritirata per
evitare una bocciatura certa), un viceministro dimezzato con la revoca
permanente delle deleghe sulla Guardia di Finanza, le mozioni
del’opposizione che non passano soltanto per effetto del “soccorso grigio” di
due senatori a vita. Così, ad una prima occhiata, non sembrerebbe proprio un
trionfo del governo. O no?

Ma sul versante di
centrosinistra i conti non tornano anche da un altro punto di vista:
l’effetto-Veltroni. Il Partito democratico nasce, stando ai proclami dei suoi
artefici e demiurghi, con un duplice scopo: rafforzare il governo Prodi e
semplificare il quadro politico. Ebbene, non è affatto azzardato affermare
che entrambi gli obiettivi sono stati fin qui clamorosamente falliti. Proprio da
quando il Pd ha fatto irruzione sulla scena politica, infatti, la maggioranza si
è quotidianamente indebolita, sfaldata e sfilacciata. E la babele di
centrosinistra è in costante, progressivo aumento. In principio, i partiti che
sostenevano Prodi erano nove: di per se stesso un record mica male.
Teoricamente, con la nascita del Pd, si sarebbero dovuti ridurre almeno a otto.
E invece cosa è accaduto? Da una parte è sorta Sinistra Democratica, dall’altra
i Liberaldemocratici di Dini. E il duo Bordon-Manzione ha aggiunto al computo
un’altra Unità (democratica anch’essa).

Ma non è finita: Fisichella sta per
lasciare l’Ulivo e passare al gruppo misto, Mastella ha il muso lungo e non
perde occasione per farlo notare, Di Pietro va a briglia sciolta (tra un attacco
a Visco e un flirt con Fini). E ancora: last but not least, Franco Turigliatto
annuncia di non essere intenzionato a votare la Finanziaria e di sentirsi fuori
dalla maggioranza, tanto che nel centrosinistra c’è chi teme che possa dar vita
ad un altro gruppo autonomo insieme con Ferdinando Rossi e Fosco Giannini. Come
se non bastasse, anche Follini ha recentemente battuto un colpo. Perfino l’uomo
che fece da stampella a Prodi dopo il flop della relazione di D’Alema sulla
politica estera ha dato a mezzo stampa un consiglio all’attuale
Presidente del Consiglio: dimettersi subito dopo il varo della
Finanziaria.

Come si vede, tutti
in ordine sparso. Un vero e proprio esercito in rotta, che bada solo a
procrastinare la disfatta definitiva con una serie di ritirate “strategiche”. E
mentre Grillo ha gioco facile a soffiare sul fuoco, alimentando la nausea e la
sfiducia verso “questa” politica, agli Italiani non resta che un solo
interrogativo per il futuro: durerà ancora molto l’accanimento terapeutico
oppure qualcuno – a livello politico o istituzionale – si deciderà finalmente a
staccare la spina?