Dopo il concerto di Bolton con mia madre siamo andate a farci un drink
02 Agosto 2009
Lo ammetto. Fin dal primo momento in cui mi sono trovata in mano i biglietti per il concerto di Michael Bolton ho avuto la vaga sensazione che qualcosa non andava. Ne ho avuto la conferma quando, per cercare sostegno morale, ho provato a convincere amici, colleghi e anche qualche conoscente di Facebook ad accompagnarmi e non sono riuscita a persuadere neanche uno di loro. Ho provato persino a invitare un tipo del mio ufficio a cui raramente avevo rivolto la parola sino ad allora. Ma, al solo pronunciare il nome di Bolton durante la pausa caffè, ha fatto un ghigno di disprezzo – non so se più per il caffè o per il nome del cantante – rispondendo: “Che schifo! Lo odio perché piaceva a mia madre. A casa lo metteva sempre a palla. Mi ha traumatizzato l’esistenza”.
Ed era proprio per la mia, di madre, che stavo andando al concerto. Non avevo avuto altra scelta. Quando ho visto i suoi occhi illuminarsi nel vedere la pubblicità del concerto di Bolton all’Auditorium di Roma, mi sono detta: “Beh, potrei farle una bella sorpresa e portarla a vedere ‘sto tizio. In fin dei conti glie ne devo un bel po’”. Ma fino a quando non ho speso la bellezza di 80 euro per i biglietti, non mi ero ancora resa conto che la situazione era critica: non per essere cinica, ma con ottanta euro oggi una ragazza potrebbe anche rifarsi il guardaroba, specialmente in tempi di saldi… E poi che ci fa una venticinquenne ad un concerto di un tipo che, come minimo, ha il doppio della sua età? Il danno però l’avevo già fatto.
Età media del concerto: 50 anni. Ma i palchi erano tutti pieni. Confesso che la cosa mi ha sorpreso: ma chi si ricorderà mai di un artista che non si vede più in giro da almeno una quindicina d’anni e che, dai tempi in cui era un sex-symbol tipo Sting o Brian Adams, ne sono passati di star sotto i ponti… E invece no, una platea di fan di mezza età era arrivata fin lì solo per lui.
Inizia la musica, una band multicolore riempie il palco. Niente male i muscoli del percussionista, penso mentre guardo incuriosita. Ed entra lui: capelli brizzolati, fisico asciutto in un vestito nero e camicia bianca fuori dai pantaloni. Scarpe rigorosamente da ginnastica. Molto “american”. Con la sua voce roca intona “Sittin’ on the dock of the bay”, la cover del brano di Otis Redding che lo rese famoso già negli anni ’70 quando a 15 anni suonava nei locali jazz.
E’ proprio allora che ho un flash back. Mia madre che mette il disco di Bolton a palla, quello in cui lui appare bellissimo, biondo, capelli lunghissimi e occhi celesti. In un rituale quasi propiziatorio c’erano anche le mie due sorelle che cantavano insieme a lei a squarciagola, usando una forchetta o qualsiasi altra cosa capitasse tra le mani a mo’ di microfono. E anche io, che avrò avuto sì e no 10 anni, le seguivo e facevo finta di cantare in una lingua inventata, tutta mia, fatta di suoni che cercavano di imitare quelli della canzone, con una specie di inglese mal improvvisato.
A quel punto Michael Bolton parte con il repertorio che definisce “vintage”, vecchie canzoni americane e alcune del grande Sinatra, da New York, New York a That’s life, passando per Fly me to the moon. Proprio alla fine di quest’ultima, quando l’ultimo verso fa “in other words, I-love-you”, quel “you” diventa un sussurro, mi viene un brivido quasi orgasmico. Lui flirta con il pubblico e sa farlo bene. Niente male per un cinquantenne.
Si spengono le luci. La band suona da sola. Per la seconda volta è sparito, forse per andarsi a cambiare. A un certo punto si sente nel buio della sala la sua voce che canta la mitica When a man loves a woman. E giù tutti che urlano. Si accendono le luci. Ce l’ho davanti. Questa volta è in jeans e magliettina da sfigato, con le Converse nere però. E’ salito tra le gradinate di sopra e me lo ritrovo a un paio di metri.
“Mazza quant’è bono. C’avrà pure cinquant’anni ma un favore glielo farei volentieri”, penso tra me e me. “Sei la solita frivola” e neppure finisco di pensarci che vedo mia madre avvicinarsi alla calca di donne (e uomini) che circondano Bolton e i suoi bodyguard. Mi guardo intorno per vedere se qualcuno mi sta guardando. Che vergogna! Per fortuna tutti cantano e nessuno se n’è reso conto.
Da lì mia madre si agita per farmi capire di farle una foto, con lui che si trova a un passo da lei e le canta proprio davanti. Sorride soddisfatta alla telecamera e ci rimane davanti per un po’, a cantargli vicino, a squarciagola. Proprio come faceva anni fa con me e le mie sorelle. Con la stessa grinta anche se con qualche ruga in più di allora.
Mi accorgo di quant’è bella e della forza che ha sempre avuto. La stessa che è riuscita a trasmetterci in tutto questo tempo. Nonostante la vita, nonostante sia rimasta sola troppo presto.
Ritorna tutta sorridente con il braccio teso e mi dice a bassa voce “mi ha stretto la mano” mostrandomela come se non l’avessi mai vista, come se si trattasse di un pezzo da museo da appendere al muro del salotto. La musica continua e mi guardo attorno.
Davanti a me c’è una coppia che è stata tutta la sera seduta, immobile. Mi chiedo se siano ancora vivi e nel guardarli penso a quanto sono fortunata nell’avere una madre così. Inizio a cantare con lei, con Bolton e con altri duemila spettatori – meno i due davanti a noi – “Nessun dorma” a squarciagola. E’ una specie di tributo a Pavarotti. Ho un’altro brivido.
Il concerto finisce con le sue canzoni più celebri: I said I love you, but I lie, To love somebody. Nel frattempo, quasi faccio a botte con un’altra signora seduta di dietro che si lamenta che ci siamo messe in piedi a cantare e non riesce più a vedere il palco. “Forse le pesa troppo il culo” dico ridendo a mia madre, “Come fa a non alzarsi neanche adesso che sta per finire?”, ripeto incredula.
Alla fine ce ne andiamo dall’Auditorium canticchiando, sottobraccio. Mia madre fa cenno di fermare un taxi ma riesco a bloccarla in tempo. Mi guarda sorpresa e le rispondo: “Ma che scherzi? Mi sa che ti tocca offrirmi da bere. La serata è appena incominciata”. Sorride e andiamo a bere qualcosa.